Agorà

RACCONTI D'AUTORE. L’elefante impossibile del giovane Munir

Laura Bosio mercoledì 31 agosto 2011
L’arrivo in Italia non è un ap­prodo, è uno scontro. Il barcone su cui ha viaggia­to per un giorno intero con due­cento africani come lui, si schianta sulla banchina e insieme a molti al­tri Munir vola nell’acqua nera e vi­schiosa del porto. Corpi si sbrac­ciano, teste galleggiano a pelo, si sentono urli, lamenti, fasci di luce bianca e azzurrognola attraversa­no il buio. Munir nuota furiosa­mente, si aggrappa a una corda, vie­ne ripescato. All’asciutto, perde i sensi. Si sveglia al mattino in un re- cinto. Mille e una persona, uomini soprattutto, con qualche donna e ragazzi della sua età, si accalcano contro un cancello. Li vede dalla fi­nestra di fronte alla branda dove è allungato, una delle tante in uno stanzone che puzza di umanità. Un odore che gli dà la nausea, e lo rin­cuora. Chi lo avrà aiutato? Quel­l’uomo con la pelle giallo epatite che quattro brande più in là si ac­cende una sigaretta? Quella donna con la faccia schiacciata, coperta di veli blu da carovaniera? Si solleva con fatica, si mette in piedi e mas­saggiandosi la testa barcolla verso la porta che apre sul cortile. Non mangia da quasi due giorni. L’im­patto con il sole già forte e con l’a­ria umida e snervante gli oscura per un istante la vista e lo fa vacillare. Ma questa volta non sviene. Si tra­scina al cancello dove si mescolano voci, e decine di lingue diverse. Co­me uscirà da lì? Corri, gli ha detto sua madre, corri senza fermarti come sanno fare gli africani, hai deciso di andare da tuo padre e al­lora svelto, trovalo, scopri l’ospeda- le dov’è ricoverato… Del ricovero hanno saputo da un conoscente, ri­spedito a Gabès con il foglio di via. Da allora sono passati sette mesi, e nemmeno una notizia, e molti, in quell’angolo ai margini della città dove suo padre aveva più amici che nemici, si domandano, e non lo fan­no con tutti, cosa gli sia capitato. Lavorava alla pompa della benzina, suo padre, prima di partire. Come uscirà da lì? A metà mattina un po­liziotto in maniche di camicia, ba­gnato di sudore, finalmente li libe- ra dal recinto, non disperdetevi, gri­da per superare le voci, restate in gruppo, però Munir non può rima­nere con gli altri, non ha ancora se­dici anni, anche se sembra un uo­mo, e ai controlli lo rimanderebbe­ro a casa. Invece lui deve cor­rere, volare nella direzione opposta con le sue gambe come leve, andare da suo padre. Un momento di di­strazione delle guardie e Munir è già alla spiaggia, mentre lo scirocco sta trasformando il mare in una distesa di schiume. Corri, di­cono gli occhi inca­vati di sua madre, gli sguardi vuoti dei suoi fratelli più pic­coli, e il resto per lui è come un sogno, o un incubo, pieno di pericoli, trappole, facce come ma­schere, sorrisi di cui ci si può fida­re o forse no. Per tre giorni e tre notti Munir si muove verso nord su barche e treni, per la via più diretta, con il cuore in gola, fin­ché intorno a Ro­ma, dove un ca­mion lo ha lasciato, crolla sotto un al­bero. Non vede neppure la campa­gna deserta, le farfal­le silenziose. Si sdraia all’ombra, sta per ad­dormentarsi, non pos­so, si ripete, ma le pal­pebre lottano con il son­no, ormai gli occhi sono delle fessure, e non si stu­pisce di scorgere in lonta­nanza un elefante, che a­vanza dondolandosi verso di lui sul viottolo tra i cam­pi. Munir si sforza di aprire gli occhi, ma l’elefante non sparisce. Si appoggia al tron­co e con gli occhi ben sbarrati guarda meglio. Trattiene il fiato: è un elefante vero. Si sveglia com­pletamente. Munir non ha pratica grande di elefanti, ma che sia mol­to vecchio lo capirebbe chiunque. Ha le zanne annerite e consumate, la pancia divisa in migliaia di rughe e le orecchie tutte slabbrate. Ogni tanto le agita e mosche e mosceri­ni si sollevano dal cranio potente. Con la proboscide regge un basto­ne ai cui lati pendono due secchi d’acqua. Si osservano per un po’, poi il pachiderma si stufa, si gira, sbatte la stretta coda e con il suo passo pesante, senza far cadere u­na goccia dai secchi, si allontana sul viottolo. Cosa devo fare?, pensa Mu­nir, e intanto si incammina dietro il bestione. Prima o poi dovrà pur fer­marsi, si dice seguendolo a distan­za di sicurezza. D’un tratto, a un bi­vio, l’elefante abbandona il viotto­lo e si infila in un sentiero tra can­ne e cespugli, e alla fine, tra canne più alte bruciate dal sole, appare u­na capanna. L’elefante, come un servitore diligente, posa i secchi, dà un paio di pestoni che fanno tre­mare il terreno e dalla capanna e­sce un vecchio. Ha un lungo abito di tela chiara, molto cencioso, una barba che gli arriva all’ombelico e una benda su un occhio. Vedendo il ragazzo, piega la testa per fargli un saluto. Munir lo imita. «Africano – gli dice il vecchio – pos­so darti un po’ del mio pane?» Mu­nir fa segno di sì e l’uomo gli dà del pane che tiene in una tasca. «Mi riconosci?», gli domanda, e si siede su un tronco, poi invita il ra­gazzo a fare altrettanto. Munir ad­denta il pane, stranamente fresco, e fa segno di no. «Annibale, il mio nome, ti dice qual­cosa? ». Ormai nulla può stupire Munir. «Certo – risponde trionfante – sono tunisino». Il vecchio sospira. «Guarda come sono ridotto, so­lo, senza armi, senza esercito, abbandonato anche dalla speranza. Mi sono illuso per secoli, prima o poi arriveranno i rinforzi da Carta­gine, mi dicevo, e finalmente potrò conquistare Roma. Ho fatto tanta strada per arrivare qui, ho messo in moto una macchina grandiosa, ho attraversato le Alpi con quaranta e­lefanti per colpire la fantasia e far capire di cosa ero capace. Con le buone e con le cattive, le tribù del­la pianura, che odiavano i romani, si sono alleate con me. Il sud dell’I­talia, tra lotte e saccheggi, mi ha ri­conosciuto re, per anni sono quasi diventato italiano, lo sai che dei mu­sicisti pugliesi dicono in una can­zone di essere figli di Annibale? Sconfisse i romani, cantano, restò in Italia da padrone per quindici o vent’anni, ecco perché molti italia­ni hanno la pelle scura, un po’ del sangue di Annibale è rimasto a tut­ti quanti nelle vene… Ma Roma mi ha spaventato, ho perso tempo cre­dendo di dover agire con pruden­za, rispettando una città che co­munque, prima o dopo… e guarda come sono finito. Mi chiamavano perfido, come hanno poi fatto con i parenti stretti dei cartaginesi, gli ebrei, e come continuano a fare con gli africani. Proprio non vogliono capirlo che i tempi di Annibale non ci sono più, che gli africani, o al­meno la maggior parte di voi, sta facendo un’invasione pacifica, mi­schiandosi tra persone che di afri­cano hanno più di quanto immagi­nano. Tu, ad esempio, perché sei qui?» «Per raggiungere mio padre», ri­sponde Munir, con una voce im­provvisamente fonda come quella del vecchio che gli ha appena par­lato. «Ti faccio una proposta», sorride il vecchio alzandosi. Adesso sembra davvero un re. «Sorprendi tutti, arriva da tuo padre in groppa al mio decrepito ma sem­pre fidato elefante, e chissà. Non so­no i piccoli gesti che a volte cam­biano la storia? E durante la strada, te lo dice una volpe che qualcosa forse ha imparato, mettiti addosso questa. L’ho trovata pochi giorni fa in mezzo ai cespugli». Annibale la tende al ragazzo, poi gli volta le spalle e grande e lento rien­tra nella capanna. Munir la guarda. È una maglietta di cotone, sul pet­to ha una scritta: ' I’m muslim. Don’t panic , Sono musulmano. Niente panico'. A cavalcioni sul collo del­l’elefante, con le insegne della sua pacifica corsa e una fiducia che pri­ma non aveva, Munir imbocca il viottolo.