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Intervista. Leali: «Il segreto? La forza melodica di certe canzoni»

Massimo Iondini sabato 19 agosto 2017

«Il segreto è nella forza della melodia. Per questo certe canzoni esisteranno sempre, fanno parte della storia. Si cantavano ieri e si canteranno domani. Ma non solo Volare o O’ sole mio ». Non ha dubbi Fausto Leali, dai primi anni Sessanta sulla breccia e anche in questi giorni in concerto in lungo e in largo per la Penisola con i suoi successi evergreen, a partire da quella A chi (cover di Hurt, canzone americana del 1954) che proprio quest’anno compie mezzo secolo nella versione italiana, con testo di Mogol, dell’ex “negro bianco”.

Senta Leali, perché lei e molte altre popstar degli anni Sessanta riuscite ancora a mettere d’accordo addirittura tre o quattro generazioni?

«La musica si evolve in continuazione, come la società. I suoni cambiano, i ritmi pure. Ciò che invece costituisce sempre il cuore di una canzone è la melodia, con la sua cantabilità. È chiaro che ci sono poi melodie riuscite e potenti, come Il mondo di Jimmy Fontana per esempio, e altre meno originali. La melodia non basta però. Serve un testo che emozioni e serve la giusta armonia. È un problema di scrittura, di bravura del compositore».

Figura forse oggi un po’ in crisi.

«Talento naturale a parte, quando uno vuole diventare musicista ancora oggi è bene che studi musica classica e vada al conservatorio. Poi può diventare un jazzista, un rocker, un rapper o altro. Certo, il successo di una canzone poi lo determinano il pubblico e le strategie commerciali. Ma alla base ci vuole originalità e capacità di scrittura. Anche a Sanremo ne sanno qualcosa».

Una critica che viene mossa al Festival è quella di sfornare sempre meno canzoni che si ricordino nel tempo.

«Sanremo ha sofferto soprattutto nel periodo in cui in Italia andavano per la maggiore i cantautori, che scrivevano per sé e al Festival non ci andavano. È più difficile invece per un autore scrivere per un interprete, perché deve cucirgli la canzone addosso. È un’alchimia speciale, che ha però sempre al centro il guizzo della melodia vincente. Persino i rapper lo hanno capito, se vogliono avere successo».

I rapper come dei neomelodici?

«In una certa misura anche loro devono ricorrere all’inciso melodico, il più possibile orecchiabile. Mica parlano e basta. Anche i rapper conoscono i loro limiti espressivi. Così fino a un certo punto parlano a raffica, poi inseriscono un pezzetto di canzoncina o di ritornello cantabile. Lo devono fare per forza, se no la canzone non funzionerebbe e non avrebbe presa. Non comunicherebbe in modo abbastanza efficace».

Ma a lei piace il rap?

«Non conosco quasi nessun rapper. Eppure negli Stati Uniti, dove vado spesso, lo sentivo già trent’anni fa per le strade. Poi ha dilagato dappertutto, persino in Russia. Devo dire che non pensavo che potesse avere molto successo in Italia. Vedo però che funziona soprattutto quello che strizza l’occhio anche a una certa cantabilità, con un ritornello che stacca».

Allora fra trenta o quarant’anni si canteranno anche brani rap come oggi si cantano le canzoni degli anni Sessanta e Settanta?

«Questo nessuno lo può dire. Ed è meglio non pronunciarsi, visto che anche i Beatles vennero considerati un fenomeno passeggero persino da qualche critico musicale. Ma anche da un alto dirigente della Rai».

A cosa si riferisce?

«Era il giugno del 1965 e in Italia arrivarono in concerto i Beatles, con cui condivisi il palco. Un’occasione più unica che rara visto che alla fine fu l’unico loro tour italiano. Bene, ricordo che un alto dirigente della Rai rifiutò la proposta degli organizzatori di trasmettere qualcosa del tour dicendo che si trattava di quattro ragazzini di cui di lì a pochi mesi nessuno si sarebbe più accorto. Invece le loro canzoni non ce le scorderemo più».