Agorà

Sport in lutto. Addio a Lea Pericoli, la principessa del tennis italiano

Massimiliano Castellani venerdì 4 ottobre 2024

Lea Pericoli nel 1964 a Wimbledon

Salutiamo per sempre la principessa dei “gesti bianchi”, e per la prima volta siamo costretti a dire anche la sua età: a 89 anni se ne va Lea Pericoli. E’ stata nostra “Lady tennis”, modello di eleganza e di emancipazione. Lea, la ragazza che nel dopoguerra praticava uno sport in cui le donne italiane, che aveva da poco ottenuto il diritto di voto, erano delle mosche bianche. Una figlia adottiva dell’Africa, come il suo grande fratello, anche di campo, Nicola Pietrangeli che è nato a Tunisi nel 1933, due anni prima della Pericoli sbarcata in Eritrea con la sua famiglia a bordo del mitico "Conte Rosso". E fu ad Addis Abeba, sulla terra rossa d'Etiopia che avvenne il suo battesimo con il tennis. Poi gli studi in Kenya, al Loreto Convent di Nairobi in un’adolescenza vissuta quasi come nelle pagine de La mia Africa di Karen Blixen. Maldafrica infatti si intitola l'autobiografia pubblicata qualche anno fa, da Marsilio, in cui poetica annotava: «Gli africani definiscono il vento un "sospiro di Dio". Per me è la bacchetta magica che guarisce le delusioni, allevia i dolori e cura le ferite...».

I dolori e le ferite li ha conosciuti tardi, dopo una vita fortunata e piena di momenti di gloria. A cominciare dal ritorno in Italia dove a Forte dei Marmi la chiamavano la “bionda africana”. Un talento che proprio settant’anni fa si presentava per la prima volta sull’erba di Wimbledon. A colpire gli attenti giornalisti dei tabloid londinesi fu però i il “mutandone” che spuntava dal gonnellino. Nell’Italietta bacchettona invece gridarono allo "scandalo". «Ero minorenne. Mio padre la prese talmente male che mi fece ritirare dall'attività agonistica e mi intimò: "Tornerai a giocare solo quando te lo potrai permettere di tasca tua". E così è stato...», ci raccontò un giorno che aprì la sua casa milanese. Dopo quell’incidente di percorso la giovane Lea cercò una occupazione, che allora il tennis non era mica quello milionario di oggi. Giocare era il suo dopolavoro e per convincere il padre che quella era la sua strada dovette arrivare il 1958: l’anno in cui la Pericoli vinse il primo dei 26 titoli italiani conquistati in carriera. Un fenomeno? Agonisticamente brava, ma per lo scriba massimo Gianni Clerici, più che per il "pallonetto" o il doppio eccellente giocato in coppia con Silvana Lazzarino, Lea ha sempre ammaliato le folle per il suo look. «Tulle trapuntate d'oro, sottanine piumate... La Pericoli fu certo più affascinante donna che grande tennista», vergava il caustico Clerici.

Un rovescio al quale lei rispondeva con l’ironia delle donne forti e coraggiose: «Ho sempre pensato che sarebbe stato peggio essere bruttina e fortissima. Intanto al Foro Italico, grazie a quei "piumini", passai dalla gara delle 9 del mattino al campo n° 6, a quella del pomeriggio al Centrale, pieno zeppo come quando giocavano Pietrangeli e tutti i grandi del tennis di allora». Grazie alla sua grinta e alla voglia di emancipazione attraverso lo sport, il tennis rosa con lei acquistò finalmente dignità, senza mai snaturare l'essenza della vera donna, come ha sempre raccomandato alle sue eredi. «Adoro le nostre ragazze della squadra azzurra e trovo il tennis femminile di oggi molto più spettacolare. Noi eravamo noiose. Un difetto di quelle di oggi? Giocano tutte alla stessa maniera, ma questo anche per colpa di tanti cattivi allenatori. Così è normale che il n° 500 degli uomini batta la n° 1 femminile». Discorsi condivisi fino alla fine con l’amico fraterno di sempre, il suo caro Nicola Pietrangeli. «Nicola è un inguaribile ottimista. Quando ripensa al passato mi dice: "Lea, io con il tennis avrei potuto guadagnare tanto di più, ma quanto mi sarei divertito molto di meno».

Nella sua vita Lea ha viaggiato e si è divertita tanto, quando giocava e poi come commentatrice dei grandi tornei. Una ambasciatrice del tennis italiano nel mondo, al fianco di Pietrangeli che adesso confessa tutto il suo dolore per la perdita di «una sorella» alla quale, con il loro solito modo di scherzare e di prendersi in giro manda a dire: «Lea, aspettami, prenota il tavolo». Ma poi Pietrangeli confessa commosso: «Soffro, perché non potrò neanche andare al funerale. Sarò criticato, ma spero che la gente capisca. Sono stato il primo a saperlo. Ripeto, ho perso una sorella, una compagna di vita. Lea era una cosa bella.. Di lei ricordo, più che la tennista, la sua classe. Era una grande signora, si dovrebbe ricordare come una signora di altri tempi».. Un signora che amava ricordare i match vinti, ma anche le sconfitte e accettava i complimenti con lo stesso sorriso con cui smesciava sulle critiche. Una donna consapevole che la sfida più importante è sempre quella che ci mette davanti la propria esistenza. E con questo spirito per anni era riuscita a superare anche la terribile sfida contro il cancro. Per questo il suo impegno dalla parte di chi soffre è stato costante e l’ha portato avanti con il progetto “Il tennis per la vita”. «Con i fondi raccolti abbiamo fatto tante cose buone, tipo costruire gli alloggi a Milano in cui possono essere ospitati quei bambini, con i loro genitori, che devono seguire i cicli di chemioterapia». Questo era il vero servizio vincente dell’eterna campionessa, che fino alla fine ha continuare a sorridere alla vita perché amava ripetere: «Sono stata una donna fortunata che ho capito presto che la vera ricchezza è nel saper vivere bene con se stessi. Solo così puoi davvero amare la vita e dedicarti agli altri». Buon viaggio Lea.