Parigi. Notre-Dame ferita diventa segno di speranza
La Basilica di Notre Dame con i ponteggi della ristrutturazione
Il regalo migliore che può fare un incontro è sorprendere. Attivare nuove energie, scuotere ciò che si dà per acquisito e che nella maggior parte dei casi è parte di un processo incompiuto, caduto in letargo. Questo è il caso del mio incontro con Notre–Dame. La nuova Notre–Dame. Quella circondata da transenne e gru, ricamata di filo spinato, invasa da ponteggi e travature in legno, velata qua e là da improbabili sindoni di tessuto sintetico. Una Signora di grande lignaggio che si è appartata per un restyling forzato, impegnativo e protratto nel tempo, in seguito all’incendio nel pomeriggio del 15 aprile 2019. Evento devastante ma non definitivo. Testimonianza delle ferite che il tempo e la stessa esistenza in questo mondo portano con sé come effetto collaterale non opzionale. Coronato da una cronaca scavata in tutte le direzioni, show un po’ grottesco del rilancio al rialzo di chi avrebbe investito più miliardi per ricostruire le parti perdute, di chi avrebbe avuto la idea più balzana e assurda nel ripensare il tetto come spazio sociale, giardino o piscina. La nobile Signora non si cura di tutto questo. Può sopportare qualunque cosa, anche le vette della insipienza umana, esibita non di rado con orgoglio nella nostra contemporaneità.
Voglio raccontare cosa la Signora ha dato a me, nel nostro primo appuntamento, privo di retorica e grandeur. A sovrintendere un team di maestri di cerimonia composto da macchinisti e capi cantiere. La Signora, nelle sue attuali condizioni, è ancor più presenza mistica, ineffabile e profondamente simbolica. La contenzione limita la fruizione facile e appagante delle sue magnificenze, eppure ne amplifica la presenza. La Signora oggi più che mai parla di potenza. Di comprensione, di magnanimità e di verità. Per quanto mi riguarda Notre Dame oggi insegna qualcosa di nuovo. L’incendio, che ovviamente sarebbe stato meglio non ci fosse stato, ha distrutto meraviglie concrete, ma ne ha restituita una che forse le vale tutte. Ed è quella che dà la garanzia della permanenza, della incidenza nella storia, del potere taumaturgico del simbolo che non è morto, che non è inerte, meta di un turismo quasi mai realmente consapevole. Oggi più che mai la Signora è il corpo vivo che vive nel corpo di Parigi e nella storia. Cui la ferita centuplica le forze. Testimone concreto della sublimazione mistica di una devastazione trasfigurata in energia rinnovata. La presenza, a volte, si concretizza con più forza attraverso la mutilazione e il sacrificio. Questo è il caso di Notre–Dame, che sembra condividere con noi il percorso della pri- vazione, il mistero del dolore. Questa è la forza vera del simbolo. Relazione nel congiungimento. Notre–Dame vive la vita di tutti noi.
Sono rimasto colpito da come le gru, gli operai, i camion, il cantiere non appaiano come corpo estraneo. Danno vita a uno strano gotico in fieri, fatto di meccanismi e meraviglie, potenza e riparazione, sangue che scorre attraverso le pompe idrauliche come nelle pietre del monumento. L’andirivieni continuo dei camion che alimentano il cantiere è il pellegrinaggio contemporaneo di devozione e ossequio alla Nostra Signora che con sguardo magnanimo e avvolgente sembra accarezzare tutti coloro che si adoperano alla sua rigenerazione. Per la precisione si occupano di ricostruirne i dettagli. Perchè il fulcro, la essenza, sono sempre lì, e irradiano la città ben oltre i confini temporanei delle recinzioni. La presenza mistica di Notre–Dame stigmatizza la nostra debolezza di fronte alla sofferenza. Nulla può il fuoco, nulla la distruzione fisica rispetto alla permanenza di Nostra Signora. Notre–Dame e il suo sguardo su Parigi sono un invito attraverso l’esempio. Esempio simbolico. Profondamente vitale. Forse, anche se il ripristino totale richiederà molto tempo, il fuoco ha aiutato Notre–Dame a mostrarsi ancor più nella sua essenza. Poco dopo ho visitato la Sainte–Chapelle, a pochi passi dalla Nostra Signora. Sono rimasto un po’ deluso. La gloria delle ferite di Notre–Dame, la sua persistenza ineffabile e granitica reinventano i canoni estetici. Le splendide vetrate della Sainte– Chapelle sono un gioiello di decorazione, evidentemente. Ma di fronte a Notre Dame impastata di polvere della città, sofferente e vittoriosa mi sono sembrate come dolciastre e un po’ moraliste, goiello per benpensanti. Notre–Dame oggi è per me Nostra Signora della Ferita.
Le gru del nuovo gotico fronteggiano le torri campanarie, gli archi maestosi, i controversi gargoyle, in un dialogo tra ciclopi al centro del quale sta l’energia essenziale che domina le nostre esistenze anche contro il nostro volere: la costante trasformazione. Spesso ci si domanda perché non cedere al dolore, perché lottare per vivere fino allo stremo e oltre. Nostra Signora della Ferita è lì a dircelo. Il dolore costituisce la stessa carne di cui siamo fatti. Il dolore è segno di vita. Il dolore è vita. La devastazione esalta ciò che conta, non lo distrugge, anche se il suo prezzo può essere tremendo e i tempi non quelli limitati della nostra esistenza. Istintivamente lo respingiamo, ma senza dolore sprofonderemmo in una anestesia peggiore della morte. Notre– Dame, nella sua nuova clausura fatta di transenne e di materiali edilizi, di operatori e di plastiche, è più presente, più vicina di prima. Il suo riserbo imposto fa immaginare. Fa desiderare, muove lo spirito e il cuore. Fa sentire vivi. Oltre il fuoco, oltre la devastazione, oltre la morte.