IN RIMA/3. Spaziani: «Le parole sono come spiriti»
Ancora (circa) trecento poesie. Inedite. Non incluse nel corposo, recente “Meridiano”. «E che Mondadori mi ha scongiurato di non pubblicare…». A sentire Maria Luisa Spaziani, i cassetti della sua casa romana tracimerebbero a dir poco di versi impazienti e sconosciuti, silenziosi ma determinati.
Per l’appunto, mai dati alle stampe. Avviata verso le novanta primavere, la volitiva signora dimostra così una vitalità e una creatività davvero inesauribili, accresciute dalla naturale predisposizione alla parola e sostenute da quella fattiva, affettuosa laboriosità sempre iniettata d’entusiasmo. «Fra i pochi orgogli della mia vita c’è anche quello di convincere e trascinare qualcuno in luoghi dove non sarebbe mai andato spontaneamente, a prendere coscienza di altre dimensioni della sensibilità e dello spirito», ammette rischiarandosi. Il segreto, sembra farci intendere, sta però nel saper dischiudere con grazia tutta femminile la sorridente geometria che ogni vocabolo, persino il più recalcitrante, tiene ben nascosta dentro sé.
«Un verso è un dio che si presenta, trema / ai tuoi vetri, ha freddo, non trova le parole. / E qualche volta muore per la bianca / paura di non nascere» (da “Geometria del disordine”). Sulla difficoltà del poeta di trovare le parole giuste si sono spesi fiumi d’inchiostro. Ma in fondo esiste la parola giusta? E che cos’è, innanzitutto?
«La parola giusta è quella che hanno sempre cercato di isolare le grandi leggi e le grandi religioni. Ma soprattutto è la parola della poesia, perché la poesia deve credere in quello che dice, per sua natura non mente, non la si può trasformare o imbrigliare, altrimenti diventerebbe prosa o filosofia».
Anche le parole hanno un peso? Quali, in base alla sua esperienza di poeta, pesano – o hanno pesato – più delle altre?
«Le parole sono volatili o pneumatiche, per certi versi puri spiriti. Ma altrettanto vale il titolo di Carlo Levi, Le parole sono pietre. Non c’è contraddizione: un raggio invisibile può uccidere se va a colpire un punto condannabile secondo le leggi della verità. Nella mia poesia c’è una decina di parole fondamentali, come destino, avventura, amore e memoria».
In che modo i sogni possono trasformarsi in poesia? Non sono già essi stessi poesia, o comunque qualcosa di molto simile alla sostanza da cui attinge l’immaginario della visione poetica?
«Tutto si può trasformare in poesia, persino i sogni. Tuttavia i sogni sono una materia selvaggia, certo elaborati dalla sensibilità sensoriale, ma pur sempre frammenti diseguali ed estranei, che possono diventare poesia se un nostro occhio superiore riesce a creare un collegamento sensato».
«Troverò in paradiso le parole non dette, / capitelli di colonne rimaste a metà». Esiste un paradiso anche per le parole? Di quali parole non dette è costellata la strada di un poeta?
«Il paradiso sarebbe superaffollato se ci finissero anche le parole non dette e non potremmo fare un museo storico solo di colonne rimaste a metà. Il lavoro del poeta, il più difficile, è di inserire le parole non dette e non dicibili fra quelle che hanno avuto diritto di cittadinanza».
Se non è proprio facilissimo confezionare un buon inizio, tanto più è difficile concludere una poesia in maniera coerente e soddisfacente. Lei ha maturato qualche tecnica particolare per incipit e finali?
«La perdono se davvero ha pensato che abbia maturato qualche “tecnica particolare”, magari per gli incipit e le finali. Io mi affido all’immenso piacere che si prova quando si sente il bisogno di scrivere una poesia, e senza consultare manuali o ricorrere a tecnicismi penso che l’immagine più calzante sia quella, meravigliosa, di fare il morto sull’acqua durante una bella nuotata».
Quali strumenti ha a sua disposizione un poeta per fronteggiare quei periodi di magra creativa, di carestia lirica che improvvisamente, e senza alcun preavviso, lo colpiscono?
«C’è un’unica difesa da applicare e mi sembra tanto naturale quanto saggia: concentrarsi su una qualsiasi delle altre cose che faremmo accanto alla poesia tutti i giorni, e che gli altri affrontano sempre senza pensarci, come passeggiare, mangiare una fetta di anguria, ricordarsi di pagare le tasse o magari più o meno innamorarsi. L’ispirazione, vecchia e detestata parola in cui io credo, verrà da sola, e comunque non ci sono sistemi per convincerla a ritornare».
Nel corso della sua infaticabile e variegata attività letteraria, non le si è mai affacciata l’idea di smettere di scrivere “perché in fondo tutto è già stato detto”?
«Che tutto sia stato detto è una verità sacrosanta. La gamma dei sentimenti, la varietà delle occasioni, lo slancio di dire di sì o di no ci sono già a cominciare dall’Odissea. Ma ogni poeta vede le cose in modo differente, ed è proprio quella diversità che prolunga l’incanto millenario della poesia, che allarga sempre un po’ il circuito neuronale».
Quanto può essere dannosa la felicità per un poeta?
«Purtroppo lo può essere molto. La felicità, come io faccio dire a Marina Cvetaeva (in Donne in poesia, Marsilio, 1992, ndr), è un passero che lascia sulla neve pochi segni memorabili, mentre il dolore è un fulmine che spacca la quercia».
Potrebbe raccontarci un compositore o un significativo brano musicale che più di altri ha determinato la nascita dei suoi versi?
«Ho pensato sovente che il culmine della bellezza umana, un’altra forma per esprimere la Pietà, quella di Michelangelo, sia il “Concerto in re minore K 466” di Mozart. Quando mi abbandono e sprofondo in questa musica immagino sempre di essere su un crinale di roccia sottomarina che potrebbe anche inghiottirmi per troppa delizia e accettazione. Come in certe pagine di Proust, quella musica rappresenta il massimo di coscienza nella saggezza, e la felicità che solo in certe altissime forme può essere elargita agli uomini».
L’ha incontrato, talvolta, il male di vivere? Sotto quali forme le si è manifestato?
«Sì, il male di vivere l’ho incontrato soprattutto perché ho vissuto l’ultima guerra fra l’adolescenza e la giovinezza. Ho visto fucilare due uomini a Torino, lanciati vivi al volo da una spalletta del ponte della Gran Madre. Ho visto gente che moriva, gente che prevedeva di morire di lì a poco, ma se lascio da parte questo enorme argomento, le dirò che a cinque anni e mezzo sono stata operata delle tonsille senza anestesia. L’offesa che ho sempre sentita come “morale”, in altre parole uno stupro, continua purtroppo ad essere presente, a distanza di decenni, più volte al mese».
Così come esistono per gli esseri umani, ci sono regole morali valide anche per la poesia?
«La prima regola morale sarebbe quella di non scrivere una poesia se non corrisponda ad una nostra validità di trascendenza del solito orizzonte quotidiano – abitudini, luoghi comuni e obblighi sentimentali di cui l’umanità è schiava da sempre – senza la possibilità di sottoporre a critica le cose di cui sta parlando. Fin dove sono veri, ad esempio, i rapporti familiari? Bisognerebbe leggere e rileggere Madame Bovary, ma come contro altare (capisca chi vuole) sarebbe necessario leggere e rileggere il Don Chisciotte o, da noi, i Promessi Sposi e il Gattopardo».
Nella raccolta dal titolo “I fasti dell’ortica” spicca una lirica dedicata a Padre Pio. Come ha vissuto l’incontro con il frate di Pietrelcina? Quali impressioni ne ha riportato?
«Le ore passate nel 1950 con non più di quindici persone nell’antica chiesetta di San Giovanni Rotondo, si sono profondamente radicate in me. Non ero una credente osservante ed ero stata mandata lì da “Tempo Illustrato”, uno dei giornali con cui all’epoca collaboravo. In quei momenti ho sentito cosa può essere la vita contemplativa, peraltro già sperimentata in passato grazie alla figura di Giovanna d’Arco. C’erano, però, delle sensazioni e intuizioni più modeste: vedere una creatura profondamente immersa in qualcosa di indicibile, capace di concentrare nel suo silenzio l’incredibile tensione racchiusa in una freccia pronta a scoccare dall’arco e che già include tutta l’energia che le servirà in linea retta per raggiungere il bersaglio».
L'INEDITO
Lo so, lo so, inutilmente cerchi nella nebbia d’autunno le violette. Foglie brunite cadono, e ciascuna è un foglio del vissuto calendario. Se dovessi rivivere vorrei essere papa, astronomo o pirata. Perché la sorte che mi fu concessa rifiuterà di essere copiata. Maria Luisa Spaziani