Pooja era una piccola mendicante di Dharavi, lo slum più grande di Mumbai e dell’intera Asia. Lakshmi, nata con una malformazione alla mano a causa dei materiali tossici usati per costruire le baracche, sopravviveva raccogliendo l’immondizia nelle discariche della metropoli. La piccolissima Priyanka abitava a Kamathipura, il quartiere della prostituzione nel centro di Mumbai, dove lavorano baby-lucciole che possono avere soltanto 7 anni. E poi ancora Kunal, lebbroso tredicenne abbandonato dai genitori, Noor, a cui qualcuno aveva amputato le gambe perché facesse più pena quando mendicava, e la minuscola Kavita, neonata soffocata dal padre perché «se avesse continuato a vivere, la famiglia avrebbe dovuto pagare una dote». Furono i visi di Pooja, Noor e di tanti altri come loro a restare stampati negli occhi di Jaume Sanllorente, anche quando il giovane giornalista spagnolo tornò a casa dalla vacanza in India, organizzata per caso 5 anni fa. Quella vacanza avrebbe cambiato per sempre la vita di Jaume, trentenne spensierato, fino ad allora soddisfatto della sua vita divisa tra il lavoro e la movida di Barcellona. «Ma lo ero veramente o lo credevo e basta? In quel viaggio ogni cosa, ogni gesto e ogni luogo mi spingevano a pormi sulla mia esistenza delle domande che non mi ero mai posto prima», scrive Sanllorente nel suo
I sorrisi di Mumbai (pp. 250, euro 18), che esce domani per Rizzoli con prefazione di Dominique Lapierre (la pubblichiamo in questa pagina). Il libro è il racconto di una svolta: la scelta di prendersi carico dei bimbi di un orfanotrofio a rischio di chiusura, la decisione di fondare un’organizzazione per gestire il progetto, e infine il grande salto: trasferirsi in India per mettere tutta la propria vita a servizio delle piccole vittime della miseria, dell’ignoranza, dello sfruttamento. «Il fatto è che avevo deciso di salvare quaranta bambini bisognosi – racconta oggi Sanllorente –, ma poi giorno per giorno cominciai a incontrare il quarantunesimo, il quarantaduesimo, il quarantatreesimo… Alla fine, la scelta mi sembrò naturale». Cinque anni dopo, la Ong «Sonrisas de Bombay» offre una casa, istruzione e un futuro di speranza a oltre cinquemila persone dei quartieri poveri di Mumbai.
Signor Sanllorente, ma come ha fatto? «Sono convinto che i più grandi cambiamenti in questo mondo, in tutti i settori, avvengano grazie alle singole persone. Noi, in quanto esseri umani, siamo i responsabili del mondo in cui viviamo, e noi abbiamo il potere di cambiare le cose che non ci piacciono in esso. Le persone che ho incontrato in India hanno prodotto i cambiamenti che oggi hanno il nome di 'Sonrisas de Bombay'».
Come è stato possibile innamorarsi dell’India, nonostante le tante contraddizioni che ancora oggi dice di non comprendere? «In realtà non mi sono mai innamora- to dell’India. La mia relazione con questo Paese assomiglia piuttosto a un matrimonio combinato: il destino ci ha messi insieme e, a poco a poco, stiamo imparando ad amarci a vicenda. Oggi amo l’India, ma questo sentimento viene dopo anni di sforzi per adattarmi. Anche oggi io non appartengo a questo posto, perché sono e sarò sempre un europeo, e tuttavia, visto che ho scelto di vivere qui, rispetto e mi dedico alla cultura e alle tradizioni indiane».
Nel suo lavoro quotidiano lei si è scontrato con le tensioni interreligiose. Che cosa ne pensa? «È vero, ci sono tensioni e, in certe regioni, perfino violenze di matrice religiosa. Ma in tutto il mondo ci sono gruppi estremisti, legati a ogni fede o movimento politico. Qui ci sono anche milioni di indù che vivono a fianco a fianco con i musulmani e i cristiani, e sono in pace».
Lei ha anche sperimentato i pregiudizi verso gli intoccabili, i poveri, i lebbrosi: qual è la strada per cambiare? «L’istruzione è l’unica via per rompere il ciclo della povertà nel destino di milioni di famiglie. E per fortuna il governo indiano comincia ad esserne sempre più consapevole: l’estate scorsa è stata presentata una proposta di legge che potrebbe portare, nel 2011, all’istruzione obbligatoria e gratuita per tutti i bambini del Paese. Speriamo che accada davvero. Certamente il ruolo delle Ong è aiutare il governo a realizzare questi obiettivi. Non possiamo perdere il nostro tempo continuando a lamentarci dei governi».
Che cosa pensa del volontariato internazionale? Voi non l’incoraggiate. «Penso che la nostra scelta sia quella che ha più senso. Perché portare qualcuno dall’estero per insegnare inglese, quando Mumbai è piena di professori? Perché portare un architetto straniero se qui ce ne sono tantissimi? Anche per la lingua, la cultura, le procedure, un intervento locale è molto meglio che uno straniero».
Il suo approccio deciso le ha provocato minacce di morte dalla mafia locale: perché non ha paura?«Perché, se morissi, ne sarebbe valsa la pena. La Ong andrebbe avanti, dando speranza a migliaia di poveri e opportunità di lavoro a centinaia di persone. Se la mia vita finisse qui, lascerei questo mondo avendo vissuto in pienezza e con gioia. Sarei grato alla vita per avermi trattato così bene».
Nonostante la scelta che ha fatto, lei dice di sentirsi più che mai giornalista: pensa davvero che raccontare alla gente ciò che succede nel mondo possa fare la differenza? Dopotutto, per lei il cambiamento è venuto quando ha visto certe cose con i suoi occhi… «Ma la stampa può aprire gli occhi e i cuori. Ne sono certo. Molte persone hanno tratto ispirazione dalla lettura del mio libro per iniziare a sviluppare i loro progetti e seguire i loro veri sogni. Questo perché hanno visto che io non sono certo una persona straordinaria: sono un normale ragazzo di Barcellona che un giorno ha pensato che era responsabile di questo mondo. E questo può pensarlo chiunque».