Letteratura. La poesia di Pavese fra illusione e sconforto
Cesare Pavese (1908-1950)
Nel 1936 usciva presso le edizioni di Solaria un volume di poesie dal titolo Lavorare stanca. Era l’esordio letterario di Cesare Pavese (1908-1950), che vi riuniva alcune liriche composte tra il 1931 e il 1935. L’edizione definitiva, uscita presso Einaudi nel 1943, comprenderà 70 componimenti. Nel pieno della stagione ermetica, Pavese optava, in netta controtendenza, per la forma della poesia-racconto, caratterizzata da immediatezza e trasparenza comunicativa e articolata su versi lunghi (per lo più di tredici sillabe), il cui andamento narrativo echeggia quello di Leaves of Grass (Foglie d’erba, 1855) dell’amato Walt Whitman.
Il poeta supera così il soggettivismo, la frammentazione e l’oscurità tipici dell’Ermetismo, senza però rinunciare alla concentrazione lirica. Pavese afferma di concepire ogni poesia come un racconto a sé stante, «chiaro e pacato», in cui l’efficacia musicale si accompagna sempre alla chiarezza logica. Tale effetto viene raggiunto con un approccio il più possibile oggettivo ai temi trattati: la ricerca di contatti con le persone e con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui l’autore proviene, nonché l’aspirazione a difendersi dalla meccanicità della vita cittadina, dalla solitudine interiore e dal pensiero della morte; e, ancora, la città come luogo dell’età adulta contrapposta alla campagna quale orizzonte mitizzato dell’infanzia, l’opposizione uomo-donna.
Per un lungo periodo Pavese interrompe la produzione poetica per dedicarsi alla narrativa, ma vi torna negli ultimi anni con due brevi raccolte, La terra e la morte (1945-1946) e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1950), uscite postume nel 1951 in un unico volume con il titolo della seconda. Qui l’autore abbandona la poesia-racconto degli esordi per recuperare, anche attraverso l’adozione di versi brevi e regolari, i temi più tradizionali della lirica, in particolare l’espressione del sentimento amoroso e dell’infelicità che scaturisce dalla sua frustrazione.
Ora si può leggere tutta la produzione poetica pavesiana in un’eccellente edizione commentata a cura di Marco Villa e Niccolò Scaffai per “I Grandi Libri” Garzanti (Poesie, pagine CXXVI+700, euro 20,00) all’interno dell’edizione complessiva delle opere di Pavese diretta da Gabriele Pedullà (per la quale sono già usciti La bella estate, La luna e i falò, Il mestiere di vivere, Prima che il gallo canti). Il volume comprende, oltre alle raccolte sopra citate, anche 4 poesie “extravaganti”, nonché le Poesie del disamore, un manipolo di 11 testi scritti tra il 1934 e il 1938 e pubblicati da Italo Calvino nel 1962: «benché lasciato inedito », precisano i curatori, «il gruppo era sentito come unitario e conchiuso dall’autore».
Ogni poesia è preceduta da un’introduzione e corredata da un ampio apparato di note. Il volume consente così di ripercorrere la parabola del Pavese poeta con puntuali riferimenti al resto della sua produzione. Pavese, infatti, è soprattutto un narratore, di forte contenuto lirico ma comunque un narratore. Lo si vede anche quando, come accade ai suoi esordi letterari, si dedica alla poesia. Nei componimenti di Lavorare stanca egli intende comporre un ritratto di sé, descrivendo (secondo quanto afferma lui stesso in un’appendice all’edizione del 1943) «l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza».
Del resto, già in questa raccolta compare la gran parte dei temi e delle figure che di lì a poco verranno sviluppati nella produzione narrativa: il personaggio del reduce dall’America, l’infanzia come stagione della solitudine, la campagna e la collina, la donna e la sessualità. In ognuno dei componimenti di Lavorare stanca la fantasia prende l’avvio dal personaggio che vi compare, prima ancora che dal poeta stesso: è questa la tecnica della cosiddetta «immagine interna», che risponde al proposito di «raccontare immagini», piuttosto che descrivere direttamente sensazioni e stati d’animo.
Nella lirica che apre la raccolta, I mari del Sud, troviamo una figura che tornerà spesso nella successiva produzione pavesiana: quella dell’espatriato, di colui che se n’è andato, che si è allontanato dal proprio ambiente d’origine per cercare l’avventura e il successo nel mondo, ma che poi, a un certo punto della vita, torna a casa spinto dalla nostalgia. È questa, in fondo, la condizione biografica di Pavese stesso, sradicato dalle Langhe e incapace di integrarsi fino in fondo nella dimensione della città. O meglio: capace di farlo sul piano professionale (si pensi al suo ruolo di giornalista, intellettuale, dirigente editoriale, scrittore affermato), ma non altrettanto su quello privato ed esistenziale. L’esito della sua vicenda personale - come tragicamente testimoniato dal suicidio - sarà l’isolamento e la solitudine. Quando l’ultima illusione, quella sentimentale, cade miseramente, rimane solo la disperazione: motivo presente in diverse liriche delle ultime due raccolte.