Epistolari. Le lettere «morali» tra Fortini e Giudici
Nel “Carteggio 1959-1993” tra i due grandi intellettuali, colleghi alla Olivetti, c’è la loro diversità politica, religiosa e poetica, oltre che caratteriale Profetismo tragico in Fortini, realismo creaturale in Giudici. Chi potrebbe immaginare due poeti e due interlocutori più distanti, più inconciliabili? Che cosa poteva accomunarli, oltre agli anni di lavoro insieme (ufficio Pubblicità e stampa della Olivetti dal 1958), se non il socialismo e il cristianesimo, il marxismo e la poesia, il dovere dell’autocoscienza culturale e politica nel mondo nuovo dell’industria e la prospettiva utopica di una società più giusta, 'redenta' e più libera dall’alienazione del lavoro industriale di massa? Il temperamento dei due scrittori era opposto.
Ma i temi in comune, l’esperienza professionale e la presenza in entrambi di un’ottica sia sociologica che morale e religiosa favorivano, anzi imponevano il dialogo. A cura di Riccardo Corcione, un tale dialogo è documentato ed esaurientemente commentato nel Carteggio 1959-1993 (Olschki, pagine 220, euro 25,00) che Fortini e Giudici tennero con tenacia per più di tre decenni nonostante le crescenti, reciproche incomprensioni. Trattandosi di due fra i più originali scrittori che hanno dominato la scena letteraria nella seconda metà del Novecento, il libro certamente incurio- sisce e appassiona. Sono proprio le zone in ombra, i rapporti e gli scambi privati fra scrittori ciò che più manca nelle storie della letteratura.
A volte si ha l’impressione che gli epistolari spieghino più di ogni ricostruzione storiografica e interpretazione critica. In quei decenni, soprattutto nella prima metà degli anni Sessanta, il problema di come riformulare l’impegno sociale e politico in letteratura era un problema mai dimenticato e mai del tutto risolto. Del resto non c’è vero scrittore che possa accettare senza dubbi e riserve una soluzione generale che ignori le proprie capacità e i propri istinti letterari. Sia Fortini, nato nel 1917, sia Giudici, nato nel 1924, si proponevano di andare in poesia oltre l’ermetismo e oltre il neorealismo, tenendo conto sia di Montale che soprattutto di Saba e cercando di elaborare, con l’aiuto del classicismo cristiano di Giacomo Noventa, una poesia morale e diaristica, stilisticamente onesta e comunicativa: una poesia da intendersi anzitutto come esercizio autocritico e come esame di coscienza.
Nell’ottimo saggio introduttivo di Corcione (ben settanta pagine) si incontrano due sezioni i cui titoli definiscono situazione e tematica del dialogo come meglio non si potrebbe. Il primo è L’eredità del Politecnico dieci inverni dopo, il secondo è Il mandato degli scrittori e l’aspirazione profetica della poesia. I lettori che conoscono Fortini capiranno subito che si tratta di titoli costruiti con formule e termini tipicamente fortiniani. “Il Politecnico”, la rivista che Vittorini fondò nel 1945 per rinnovare radicalmente la cultura italiana nel suo rapporto con una società e una politica in rinascita dopo il crollo del fascismo e la fine della guerra, aveva rappresentato il momento culminante dell’impegno richiesto a intellettuali e scrittori. Fortini era stato in gioventù uno dei più lucidi collaboratori della rivista.
Dalla fine di quell’esperienza era però trascorso un decennio decisivo. L’Italia degli anni 1958-1963 era l’Italia di un 'miracolo economico' che realizzava per la prima volta il passaggio da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale. Questo significava lo sviluppo di una nuova classe operaia e di un nuovo ceto medio di tecnici e impiegati. La Olivetti era proprio in quegli anni non soltanto un’industria d’avanguardia (realizzò i primissimi compu-ter), ma anche l’impresa nella quale, anche con l’assunzione di intellettuali e di scrittori (tra cui Paolo Volponi, Geno Pampaloni, Ottiero Ottieri, gli stessi Fortini e Giudici) si elaboravano in prospettiva liberalsocialista 'utopie concrete' nell’organizzazione del lavoro e nell’intervento socio-culturale fuori dalla fabbrica. Per un marxista come Fortini era un problema lavorare per un imprenditore liberalsocialista che chiedeva e permetteva ai suoi dipendenti una collaborazione costruttiva, quasi che volesse abolire o far dimenticare i conflitti sindacali e la lotta di classe. Quanto al 'mandato degli scrittori' e alla poesia come profezia, siamo nel cuore dell’impegno storico-letterario secondo Fortini.
Da un lato lo scrittore come individuo a cui la società delega dei compiti di rappresentazione e di critica, dall’altro la poesia che interpreta 'profeticamente' l’avvento futuro di un’utopia della società giusta. Giudici, più giovane e meno ideologo, ascoltava Fortini, imparando a riflettere con rigore politico e leggendo autori marxisti a Fortini cari come Lukács, Brecht, Adorno. Ma soprattutto come poeta Giudici si trovò prima a cercare di realizzare e poi gradualmente a superare il rigorismo gelidamente utopico-marxista di Fortini, che all’inizio degli anni sessanta teorizzò e praticò una poesia neoermetica, ipertesa per eccesso di allusioni allegoriche e di gestuali rifiuti di collaborazione.
Quanto più la poesia di Fortini voleva rispecchiare pietrificandosi la rigidità capitalistica dei rapporti economici e di potere, tanto più Giudici tendeva a mettere fedelmente in versi una vita smarrita fra debolezze, cedimenti, doppiezze colpevoli o inevitabili, rendendo più affabilmente comunicativo, umile e colloquiale il suo linguaggio. Al più alto dei livelli stilistici, quello sublime-tragico congeniale a Fortini, l’interlocutore Giudici contrapponeva il livello stilistico più mediocre o basso, quello umile-comico in cui perfino la lirica viene ambientata in situazioni narrative.
E alla fede nella storia di un oppositore intransigente qual era Fortini, si contrappone in Giudici un’ironica autocommiserazione, o dolente autoindulgenza. La diversità fra i due, che con il 1968 diventa conflitto, oltre che ovviamente caratteriale, è politica, religiosa e poetica. Al marxismo rivoluzionario e utopico di Fortini, al suo tagliente calvinismo, Giudici si sottrae scegliendo una riformistica, cattolica misericordia e compassione. È certo un dialogo-conflitto fra due stili. Ma dietro ogni stile c’è un’etica e perfino una metafisica.