Memorie. Le lettere dal carcere dell'uighura Gulbahar
Anziani uighuri nel bazar di Kashgar
La Cina odierna è molto diversa da quella maoista che riscuoteva ampi consensi e dure condanne nella seconda metà del secolo scorso. L’adesione all’economia di mercato ha trasformato il Paese asiatico in una potenza economica di dimensioni planetarie. La necessità di convivere con questo nuovo attore ha ridotto al minimo l’attenzione per le violazioni dei diritti individuali e collettivi, che sono rimaste comunque la norma. Molti media si occupano sulla Cina soprattutto per motivi economici e geopolitici, ma esistono anche numerose questioni etniche e territoriali che preoccupano Pechino: da Hong Kong al Tibet, da Taiwan alla questione degli uighuri.
Questi ultimi sono una minoranza turcomanna di religione islamica che conta circa 11 milioni e si concentra prevalentemente nello Xinjiang. Situata nel nordovest del Paese asiatico, questa è la più estesa divisione amministrativa della Repubblica Popolare Cinese (1.660.000 kmq, tre volte la Francia). Secondo le stime più recenti, gli uighuri costituiscono il 46% dei 24.000.000 di abitanti della regione, seguiti a ruota dagli han (i cinesi propriamente detti), che toccano il 40%. La minoranza islamica è tuttora oggetto di una repressione feroce. Fortunatamente, però, negli ultimi anni stanno uscendo vari libri che permettono di conoscere questa realtà tragica ma dimenticata. Uno dei più recenti è Rescapée du goulag chinois: Premier témoignage d’une survivante ouïghoure (Editions des Equateurs), da puco pubblicata in Francia. Il volume, curato dalla giornalista Rozenn Morgat, contiene la preziosa testimonianza di Gulbahar Haitiwaji, una donna uighura che ha conosciuto i campi di concentramento. Nata nel Xinjiang, Gulbahar Haitiwaji era emigrata in Francia con la famiglia nel 2006.
Dieci anni dopo ha ricevuto una lettera che le chiedeva di tornare in Cina per firmare alcuni documenti necessari per ottenere la pensione. Ma era una trappola: la donna fu arrestata e rinchiusa in un campo di concentramento, dove è rimasta per due anni (2017-2019). In questi campi, attivi da vari anni, sono rinchiusi attualmente oltre un milione di uighuri. Il fatto che questa minoranza sia in larga prevalenza musulmana fornisce a Pechino un motivo ideale per reprimerla nel nome di quella “lotta al terrorismo” che viene praticata contro i dissidenti in varie parti del mondo.
Con la struttura di un diario, il libro racconta una vita quotidiana fatta di stenti, terrore, fame, umiliazioni: «Convinti che fossimo nemici da abbattere, traditori, terroristi, ci hanno privati della libertà». Sobria e orgogliosa, mai vittimistica, la testimonianza di Gulbahar Haitiwaji ci riporta ai tempi bui di Solženicyn e di Sacharov. Nel 2019 Haitiwaji è potuta tornare in Francia grazie all’impegno diplomatico francese, dato che il marito e la figlia avevano lo status di rifugiati.
Il suo racconto, asciutto ma spaventoso, dovrebbe scuotere dal torpore i milioni di persone che pur conoscendo questa tragedia si voltano dall’altra parte. Ormai la persecuzione operata dalla Cina nei confronti delle minoranze e dei dissidenti è sostanzialmente analoga a quella che veniva praticata nell’Urss. Riemerge il termine gulag, ma soprattutto ne riemerge la sostanza, cioè i campi di concentramento, anche se definiti “campi di rieducazione”. Come ai tempi dell’Urss, riemergono anche i coriacei difensori del sistema repressivo, che negano l’evidenza con fiera ostinazione. Uno di questi è il giornalista francese Maxime Vivas, autore del libro Ouïghours, pour en finir avec les fake news (La Route de la Soie).
Del resto, se è vero che la Cina ha realizzato una sintesi inedita di capitalismo e comunismo, è altrettanto vero che le strutture repressive del secondo funzionano sempre a meraviglia. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso i dissidenti dell’Europa centro-orientale volsero lo sguardo a Ovest per cercare l’aiuto dei propri fratelli europei. In alcuni casi lo trovarono. Oggi gli uighuri della Cina fanno lo stesso: si rivolgono a noi e chiedono di non essere sacrificati nel nome del profitto. Ma noi siamo pronti ad aiutarli?