Agorà

Cinema. Le guerre spiegate con gli effetti speciali

Fulvio Fulvi giovedì 10 ottobre 2024

Una scena del film “La sottile linea rossa”

Le guerre, tragico fil-rouge nella storia dell’umanità, sono sempre folli ma mai inspiegabili. Per questo il cinema ha cercato di raccontarle da ogni punto di vista, quello dei generali e dei soldati, delle vittime e dei carnefici, dei trafficanti d’armi e di chi vorrebbe spezzare il giogo della schiavitù a colpi di mitragliatrice. Negli oltre cento anni di vita della Settima Arte la produzione sul tema è davvero sterminata, e va dai “peplum” che narrano le imprese di grandi condottieri romani, a capolavori come Enrico V (1989) di Kenneth Branagh sulla sanguinosa battaglia di Azincourt, il 25 ottobre del 1415, dentro la “Guerra dei cent’anni”, oppure tocca film come La grande illusione (1937) di Jean Renoir e Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick che denunciano gli orrori e le nefandezze compiute dai potenti nel primo conflitto mondiale. Senza dimenticare, naturalmente, altri classici come Salvate il soldato Ryan (1998) di Steven Spielberg sullo sbarco in Normandia e Tora! Tora! Tora! (1970) di Richard Fleischer, avvincente cronistoria – 148 minuti di pura suspense – sull’attacco degli americani a Pearl Harbor visto anche dalla drammatica prospettiva dei giapponesi. Pure la guerra del Vietnam trova innumerevoli narrazioni cinematografiche, quasi sempre di denuncia, in pellicole “Made in Usa” entrate nella storia del grande schermo come Platoon (1986) di Oliver Stone e, soprattutto, Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Ma nella galassia delle pellicole di argomento bellico esistono anche prodotti non sempre di qualità o campioni d’incassi. Folta infatti è la pattuglia dei B-movies a sfondo guerresco. A indagare sulla complessa materia è stato il critico cinematografico statunitense David Thomson del quale è uscito, nella traduzione italiana a cura di Ludovica Marani, per i tipi della Jimenez, il libro La fatale alleanza. Un secolo di guerre al cinema (pagine 486, euro 24,00). Ma, aldilà dei risvolti morali e sociopolitici o degli effetti speciali che possono colpire lo spettatore, è opportuno chiedersi come hanno inciso i war movies sulla nostra cultura. Il “filo vermiglio” nel tempo si è ispessito: «La nota catastrofe di All’ovest niente di nuovo (1939) si è trasformata nell’entusiasmo infantile della saga di Star Wars, (cominciata nel 1977) – commenta Thomson – ma nel frattempo abbiamo trovato altri modi di fare la guerra che sono favolosi ed emozionanti». E in mezzo c’è stata pure la “guerra fredda” tra Usa e Urss raccontata anch’essa abbondantemente dal cinema: da Caccia a ottobre rosso (1990, di John McTiernan), per esempio. «Il film è astuto: ha un eroe russo (Sean Connery) ma è strutturato in modo tale che un sottomarino sovietico “cattivo” – scrive il critico – possa essere sconfitto e fatto a pezzi, un elemento “wow”, con un’aria di autenticità e una fiducia nella realtà talmente eccezionale che la sicurezza navale americana temette di essersi lasciata sfuggire alcuni dispositivi segreti presenti nei sottomarini». I tocchi di genuinità, d’altra parte sono sempre adorati dal pubblico. Oltre a citare e spiegare i film del genere che gli sono piaciuti di più, Thomson nel libro ci fa capire come si gira un film di guerra e quale deve essere il ruolo del regista: «Filmare una battaglia è impegnativo, vanno gestiti gli uomini, gli attori, le comparse, gli spari e le esplosioni come se fossero cose viste e sentite, le uniformi e l’equipaggiamento; e bisogna organizzare tutti questi elementi in modo che il tenero pubblico da casa o nel buio di una sala possa seguirla tutta ed emozionarsi senza però scompigliarsi: sto parlando della congruenza tra pericolo e sicurezza che riguarda ogni film di combattimento». E si dilunga a dare consigli allo spettatore affinché possa gustarsi al meglio lo spettacolo senza “riserve mentali” e senza lasciarsi prendere dall’ansia: «Lasciate spazio nella vostra testa ai film di guerra dove, mentre le bombe esplodono in aria e le cose peggiorano, amici e amanti litigano a parole o con silenzi appassionati: anche chi combatte può distrarsi». E proprio le storie nelle quali le vicende belliche, i bombardamenti e gli scontri armati si alternano e si integrano a momenti di vita normale dei protagonisti, risultano, di solito, le più gradite dal pubblico, perché agganciate alla realtà e quindi più verosimili. Tra i must del genere da ricordare c’è pure La sottile linea rossa (1998, di Terrence Malick): carrellate su una collina e la cinepresa come gli occhi di un aggressore che teme il nemico e si accovaccia in mezzo all’erba alta che ricopre il pendio. Il critico ci racconta così le lunghe sequenze che seguono: «Una volta presa la collina, con un’operazione di fiancheggiamento, Malick ci regala delle lunghe scene di attacco, con i giapponesi che vengono fatti fuori e i loro bunker trasformati in trappole mortali. Mica male. Ci rendiamo conto così – spiega ancora Thomas – che i soldati nipponici non solo occupano la cresta ma la infestano. Eppure sono cadaverici, come se l’acqua fosse finita rendendoli pazzi o storditi e con gli aggressori americani si comportano come bambini sconvolti, quindi vengono fatti fuori». Una fotografia meravigliosa, anche se la guerra bella non è mai. Anzi, spesso è addirittura ridicola, come ha dimostrato splendidamente Charlie Chaplin in Charlot soldato (1918), un film grottesco, una fiaba che si fa beffa del militarismo: il Vagabondo viene arruolato (per forza) ma è incapace di obbedire agli ordini e finisce dietro le linee tedesche riuscendo proprio da lì a carpire gli ordini dei generali del Kaiser e alla fine, per salvarsi, diventa un albero contro cui si abbattono, inutilmente, i colpi di baionetta di un goffo soldato tedesco. Perché i film restano film, e non sono la guerra. Però, qualche volta, la possono spiegare.