Agorà

Venezia. Le croci di Rainer a casa dell'amico Vedova

Alessandro Beltrami venerdì 13 maggio 2022

Arnulf Rainer, “Federkreuz”, particolare

Quando si parla della croce nel Novecento non si dovrebbe dimenticare Arnulf Rainer. L’artista austriaco, nato nel 1929, si è dedicato al tema con continuità e profonda adesione fin dagli anni 50, anche sulla scorta di una ininterrotta riflessione su mistici come Giovanni della Croce e Simone Weil. Una bella selezione di maestose croci degli anni a cavallo tra 80 e 90, interpolate dai tondi della serie Kosmos, è esposta a Venezia alla Fondazione Emilio Vedova in una doppia mostra (fino al 30 ottobre; catalogo Marsilio Arte) che affianca l’opera di Rainer con quella del pittore veneziano. Si tratta di un percorso parallelo – anche le sedi sono separate – e non di un dialogo diretto, che testimonia storicamente l’amicizia tra i due artisti ma allo stesso tempo ne misura la distanza sotto il profilo estetico e poetico. I lavori di Rainer sono esposti al Magazzino del Sale. Colpisce da subito la molteplicità delle sagome delle croci. Accanto a quella latina troviamo croci commisse, croci rovesciate, croci patenti, ma anche croci sagomate come le grandi tavole dipinte del Trecento italiano e croci con profili e angoli inediti. E ancora croci che ricordano abiti cerimoniali: dalmatiche (prossime alle tuniche impiegate da Nitsch), kimono... Sono tutte percorse da campi energetici di colore. La croce in Rainer è lo spazio di un evento. Non dipinge 'la' croce bensì 'sulla' o 'nella' croce. Non ha bisogno di dipingere un corpo perché il corpo è presente direttamente nella pittura, il colore non è rappresentazione ma traccia, persino impronta. Allo stesso tempo Rainer interviene pittoricamente sopra la forma della croce proprio come sovradipinge immagini preesistenti (vale forse ricordare che esiste una serie di fotografie di crocifissi romanici 'sovradipinti'). Un procedimento in cui il colore ha una funzione ri-velativa: un velare che è cancellazione solo nella misura in cui è scavo, ossia rimozione di un involucro, ossia la sovrapposizione di colore è un processo in negativo, un penetrare nell’immagine secondo il suo contrario. Non è l’unica analogia tra sezioni apparentemente eterogenee del corpus raineriano. L’artista deforma sottoponendola a pressione la sagoma della croce così come deforma sottoponendo a pressione il proprio corpo e in particolare il proprio volto, nella scia dell’esperienza nell’azionismo viennese. Non a caso per Rainer la croce è una sintesi del volto umano: «Mettiti davanti allo specchio, osserva il tuo volto, vedrai che all’interno vi è tracciata una croce, ovunque». Ma al contempo, afferma, «la croce è la nostra storia europea. Che si possa onorarla come si vuole». L’opera di Vedova, presentata in quello che era il suo studio alle Zattere, copre una cronologia molto più ampia, dal 1949 alla fine degli anni 90. Si potrebbe dire che in un certo senso anche Vedova dipinge metaforicamente delle croci, nel momento in cui trasfonde sulla tela la violenza e la rabbia di un secolo di sangue e di proteste. Ma il suo spazio, attraversato da spinte dialettiche sempre sul punto di collassare, è lontanissimo da quello di Rainer. Per quanto possa apparire paradossale, la forza gestuale di Rainer (qui mediata da lunghi pennelli e spazzole, ma negli anni 70 aggrediva la tela direttamente con dita e mani) contiene sempre un valore meditativo. Il materialismo storico di Vedova lo confina in una tragedia politica senza sbocchi. In Rainer invece le croci sono esplosioni drammatiche ma non tragiche. Anche dove il nero si fa una pozza liquida e sembra fare tabula rasa, altri gesti resistono, risalgono. Sono tracce che sembrano suggerire in Grünewald (autore da lui più volte 'sovradipinto', e dichiaratamente al centro del suo interesse ) il termine della riflessione. Non però la Crocifissione, o meglio non solo: bensì la Resurrezione. La sagoma che struttura Kreuz weiss-blauschwarz( 1994) o Faustkreuz (1990); le impronte dei palmi aperti e ostesi nella Federkruez del 1993; il cerchio nella Federkreuz del 1989 che rievoca la bolla di luce in cui il maestro tedesco fa galleggiare Cristo nella notte delle notti. Un’aureola cosmica che ritorna, isolata, nella regolarità dei tondi, pitture dell’infinito, senza sviluppo né direzione, che già negli anni Ottanta Rainer presentava affiancate alle sue croci.