Prima degli interventi del Vasari, nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella si entrava dal cimitero. Camposanto e luogo di culto erano uniti inscindibilmente. Proprio di fronte a quella porta, nel 1425 circa, Masaccio dipinse l’affresco della
Trinità, che introduceva, e a scala monumentale (insieme alla Cappella Brancacci), il nuovo linguaggio rinascimentale. «Possiamo immaginare lo stupore dei fiorentini», scriveva Gombrich, «quando, rimosso il velo, apparve questa pittura che pareva aver scavato un buco nel muro per mostrare al di là una nuova cappella sepolcrale, costruita secondo il moderno stile di Brunelleschi». Dal basso verso l’alto vediamo dipinto un sarcofago sul quale giace uno scheletro; sopra, le figure dei donatori, probabilmente marito e moglie; sopra ancora, la Trinità, il Trono della grazia; e a coprire tutto, scriveva ammirato il Vasari, "quello che vi è bellissimo è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni che diminuiscono e scortano così bene che pare che sia bucato quel muro".Il collegamento visivo così diretto col cimitero fa pensare che si tratti di un monumento sepolcrale. Nulla si sa di certo, in mancanza di qualunque indizio, e non si conosce nemmeno l’identità delle due figure che fanno da interfaccia tra la Trinità, lo scheletro e noi. Sulle ossa dipinte si legge: «Io fu[i] g[i]a quel che voi s[i]ete e quel ch[’]i[o] son voi anco sarete». si tratta di un
memento mori generico? Potrebbe anche essere. Ma sopra, nell’immagine del Trono di grazia, è emergente il Cristo crocifisso. Ora, una lunga tradizione medievale con radici bizantine, ha immaginato che sotto il luogo della crocifissione ci fosse il sepolcro di Adamo, in modo che il sangue del Redentore bagnasse per primo, salvandolo, il Progenitore. Sono frequenti i crani sotto la croce nell’iconografia fino a quasi i nostri giorni; più raro l’intero scheletro di Adamo. Siamo qui in presenza di un geroglifico del genere? E poi i donatori, anonimi intermediari tra la tomba e il cielo, sollevano la speranza cristiana ricordando che la morte è la porta per la vita beata.Alla riflessione sull’affresco di Masaccio, Gianni Cioli dedica un capitolo del suo libro
La morte dipinta (EDB, 200 pagine, 13 euro). Cioli è docente di teologia morale alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (Firenze), dove ha diretto il primo master in teologia e architettura di chiese nonché la rivista “Vivens homo”. Qui si concentra nell’analizzare la raffigurazione della morte in alcune opere toscane e umbre tra il 1360 e il 1430. Scientificamente studiati, nel volume troviamo il mosaico del Battistero di San Giovanni (1360-1275circa), con il Giudizio secondo un’armonizzazione dei vangeli di Matteo e Luca. Un’escatologia rivolta al presente: «L’attesa del tempo finale lascia spazio all’attenzione per il destino individuale e tutto converge nell’esortazione rivolta ai cristiani ad accogliere la salvezza oggi e a divenire partecipi ogni giorno».Sì, perché queste opere, più in Italia che nell’Europa centrale, esibiscono una teologia sulla morte, con la sua duplice valenza: la morte come fine, male, dolore, conseguenza del peccato; e la morte che ha come analogato la morte di Cristo, porta della salvezza eterna. Tra questi due poli è tutto il discorso. E fu un tema molto visitato nel secondo Trecento e fino a Quattrocento inoltrato, probabilmente a causa delle pestilenze: solo la pandemia nota come peste nera (1347-1353) portò via almeno un terzo della popolazione europea, e non fu l’unica. Si diffuse parallelamente una spiritualità e una predicazione ammonitrice. Fu rilanciata una favola medievale, l’incontro dei tre vivi con i tre morti: tre cavalieri nobili vedono interrotta l’allegra battuta di caccia dall’apparizione di tre corpi in decomposizione. Spesso si ritrova la figura di un eremita che indica loro i morti come avvertenza. Celebre la raffigurazione di Buffalmacco nel
Trionfo della Morte del Caposanto di Pisa, affrescato nel 1336-1341. L’esempio però che Gioli riporta è quello del
Dittico di Bernardo Daddi alla Galleria dell’Accademia. Interessante che le analisi dell’autore, con giusto fondamento nella storia dell’arte, siano più rivolte al portato teologico che non a quello spirituale o devozionale.Altri studi riguardano i temi escatologici nel Duomo di Orvieto, dove si verifica una sovrapposizione del soggetto nei secoli; l’
Allegoria della redenzione di Ambrogio Lorenzetti (1330-134circa), conservata alla Pinacoteca nazionale di Siena, che «può essere considerata un’efficace trasposizione in pittura dell’escatologia paolina nell’interpretazione di Agostino»; una personificazione della morte è la figura oscura che sovrasta la croce nel contesto della storia della salvezza compendiata nell’allegoria; e
La Vergine dell’Apocalisse di Giovanni del Biondo (1356-1368circa), conservata alla Pinacoteca vaticana, che «rappresenta un connubio particolarmente efficace di gusto estremo del macabro e di pietà cristiana».