Il nuovo romanzo. Le città visibili di Eraldo Affinati
Eraldo Affinati
Tra memoir e letteratura, ritratti personalissimi di metropoli e centri urbani attraverso testo brevi e con inserti in poesia, reali (New York, Roma, Charkiv,Tokyo) e più vere del vero (Autobox)
Nell’opera di Eraldo Affinati convivono istanze in apparenza contrastanti, che però non entrano mai in conflitto. Anche quando una sembra prevalere, le altre rimangono comunque riconoscibili, fino a costituirsi in cifra peculiare. In un certo senso, è il dilemma astronomico dei tre corpi – sì, quello dei romanzi di Liu Xicin e della relativa serie tv – applicato alla letteratura. Da una parte, dunque, in Affinati agisce l’appello alla testimonianza morale e all’impegno civile. È il filone più evidente, all’interno del quale si inseriscono il pellegrinaggio verso Auschwitz di Campo del sangue (1997) e l’epopea pedagogica di La città dei ragazzi (2008), le biografie di Dietrich Bonhoeffer (Un teologo contro Hitler, 2002) e di don Lorenzo Milani (L’uomo del futuro, 2016), e altri titoli ancora, molti dei quali legati alle attività della Penny Wirton, la scuola gratuita di italiano per migranti fondata dallo scrittore insieme con la moglie Anna Luce Lenzi. Un’altra componente rimanda invece a una visione enciclopedica e sistematica dell’esistenza e della conoscenza. Anche su questo versante l’elenco è abbastanza popolato. Si va da Peregrin d’amore del 2010, appassionata ricognizione tra autori e luoghi della nostra tradizione, all’estrosa «autobiografia letteraria» di Delfini, vessilli, cannonate, apparsa lo scorso anno in ideale prosecuzione di un progetto avviato già nel 2006 con Compagni segreti. Il terzo elemento è la narrativa di invenzione, che nella bibliografia di Affinati si manifesta in maniera più sporadica, ma non per questo meno significativa (si pensi alle fantasiose ipotesi romanzesche su cui si reggono Il nemico negli occhi del 2001 e Il Vangelo degli angeli, di vent’anni successivo). Come sia possibile che, in questo continuo variare di argomenti e soluzioni, Affinati resti sé stesso è uno di quei misteri dei quali si viene a capo solo riconoscendo la genuinità di una vocazione alla scrittura che si è sempre più configurata sotto il segno della radicalità e dell’urgenza.
Sono queste le caratteristiche che hanno indotto la giuria del premio De Sanctis a indicare Affinati come uno dei vincitori della XIII edizione, a fianco del regista Marco Bellocchio, della saggista Sara De Simone, dell’anglista Massimo Bacigalupo e della giornalista Giovanna Botteri (la cerimonia di premiazione si svolgerà il 27 maggio, alle ore 18, nella sede di Villa Doria Pamphilj a Roma). L’importante riconoscimento viene a coincidere con la pubblicazione di Le città del mondo, il libro con cui Affinati fa il suo ingresso nel catalogo della neonata Gramma Feltrinelli (pagine 302, euro 19,00). Occasione più che mai felice, considerato che proprio in questo libro i tre corpi della sua cosmologia letteraria si trovano in perfetto equilibrio. Lo lascia intuire già il titolo, che è nello stesso tempo citazione esplicita dell’omonimo romanzo postumo di Elio Vittorini e descrizione esatta del percorso proposto a chi legge: un’avventura attraverso città conosciute, sognate e inventate. All’origine del volume sta, come ricorda lo stesso Affinati, la rubrica Nelle città del mondo, apparsa lo scorso anno sulla prima pagina di “Avvenire”. La misura dei capitoli è rimasta la stessa, in una ricerca della brevità che spesso induce la prosa a spingersi verso la poesia. Numerosi, del resto, sono gli inserti in versi, dei quali Affinati si serve per rendere conto delle sue scelte: per spiegare, per esempio, perché uno scrittore come lui, tanto diverso da Italo Calvino e quasi sospettoso nei suoi confronti, voglia riprendere e modificare l’atlante visionario delle Città invisibili.
A derogare dalla regola della forma breve sono anche i capitoli che fanno rispettivamente da prologo, da introduzione alle diverse sezioni e da epilogo. Si parte da New York, «la madre di tutte le città moderne […] oppure la figlia scapestrata di quelle antiche in stile babilonese» e da lì ci si ritrova subito a Charkiv. Affinati c’è stato veramente, come è stato a Los Angeles o a Tokyo, ma a portarlo in Ucraina sono stati anche i resoconti dell’amico e maestro Mario Rigoni Stern, che da quelle parti aveva combattuto quando la città si chiamava Char’hov. Che la letteratura (e, più in generale, il racconto) sia un aspetto dell’esperienza lo conferma il regesto delle città sognate, prima fra tutte Venezia, intese come «effigi interiori» di una visita sempre rimandata, nell’attesa della quale ci si affida alle parole di qualcun altro. Il paradosso si sublima con Roma, dove Affinati è nato nel 1956. «Più vera del vero, ma fantastica al pari di una leggenda», la definisce l’autore prima di addentrarsi nel labirinto di città che potrebbero esistere o che magari già esistono senza che nessuno se ne sia accorto. Come Autobox, la metropoli «romantica e cosmopolita» nella quale convergono tutti i parcheggi sotterranei del pianeta. Ma anche Shell, la soluzione urbana diffusa che dà la sensazione di ritrovarsi a casa ogni volta che si fa tappa a un distributore di benzina. Indiziaria o documentata che sia, la geografia di Affinati è sempre una geografia dell’umano, per la quale un volto intravisto da una vetrina ha lo stesso valore di quello altrimenti attribuito a un monumento. Non stupisce che il punto di approdo sia fissato a Gerusalemme, la città addolorata e santa nella quale tutto si riepiloga. Ed è proprio qui che la durezza della Storia, la leggerezza dell’attesa e il lavorio dell’immaginazione rivelano la loro complicità. Bisogna girare il mondo – quello che c’è e quello a venire – per imparare a porsi le domande più semplici e inesauribili. Affinati ne identifica tre, e anche questo non è un caso: «Chi sono io? Chi sei tu? Come possiamo vivere insieme?».