INTERVISTA. Ghirelli: Le chiese moderne? Non buttiamole via
Potrebbe spaventare un po’ il titolo (e la mole) del volume di Tiziano Ghirelli Ierotopi cristiani, pubblicato dalla Lev e dedicato al rapporto tra liturgia e architettura negli ultimi 50 anni. Ma non poteva forse essere altro: perché al centro non c’è semplicemente l’edificio chiesa ma la dimensione simbolica di luogo sacro, icona spaziale della comunità. La ricerca del direttore dell’Ufficio dei beni culturali di Reggio Emilia, tra i membri della commissione che ha seguito la riforma della cattedrale emiliana, è ampia per taglio storico e geografico oltre che illuminante, a partire dalla raccolta e dall’analisi dei testi degli episcopati nazionali in materia di adeguamento liturgico.Don Ghirelli, il volume evidenzia come la liturgia e lo spazio a essa dedicato siano cambiati continuamente nei secoli. Come interpretare allora la parola «tradizione»?«Pensiamo all’ombrello usato per accompagnare il sacerdote negli spostamenti processionali o al canto sostenuto da chitarre elettriche. Esempi estremi tratti dall’esperienza, che individuano polarità concrete dell’attuale dibattito. La liturgia ha strutture tipiche non modificabili, pena la perdita di senso, e il respiro nel tempo degli uomini. Potremmo dire che è un "qui e ora, come allora e come sarà". La liturgia, dove storia ed escatologia si abbracciano, non è cronaca. Proprio per questo il termine tradizione va analizzato con cura. Vogliamo richiamarci alla tradizione degli Atti degli Apostoli? O a quella dei Padri della Chiesa? Ai grandi santi del Medioevo? Ai riformatori tridentini? Ai fondatori dei movimenti missionari dell’Ottocento? La Chiesa è cattolica in quanto costituita da un multiforme popolo in cammino; le liturgie, cioè le "soste" che fanno pregustare il Paradiso, sono espressioni di comunità dinamiche che, sapientemente guidate, trovano identità e speranza nel Cristo risorto. Dunque parlare di tradizione al di fuori di questa prospettiva da un lato rischia di diventare rivisitazione di segni non più parlanti, dall’altro alibi per fughe in avanti che durano una stagione».Si può tracciare un bilancio, a 50 anni dalla «Sacrosanctum Concilium», del rapporto tra liturgia rinnovata e architettura?«Il Concilio ci ha fornito delle linee guida e soprattutto ci ha responsabilizzati. Non ha detto: guardate al passato, alle costruzioni romaniche o barocche… Ha dato una prospettiva, lasciandoci liberi, e ci ha invitati a un cambiamento. La sottolineatura conciliare della comunità come partecipe ed espressione del sacerdozio di Cristo impone un "guardarci in faccia", un riconoscersi e un accettarsi reciproco. Un assetto mentale e affettivo di questo genere non può non produrre ambienti e strutture coerenti con l’incontro tra fratelli e tra loro con Cristo. Gli spazi dell’incontro si modellano intorno a un ordine che non è più solo gerarchia di ruoli ma è gerarchia di servizio: "Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti". Introdurci in questa dimensione non è facile. L’ordine che ci danno i banchi ci rassicura, invochiamo il "senso del sacro" che si respira in una pieve romanica. Le chiese d’oggi vengono accomunate da un giudizio negativo senza appello. Dimentichiamo che l’aura di quegli ambienti persiste non grazie alle pietre ma perché i nostri padri nella fede hanno sofferto, ideato e creato quegli spazi perché le loro liturgie vibrassero nell’incontro che salva. Oggi siamo chiamati a creare spazi per gli uomini d’oggi altrettanto significativi. È una sfida che vogliamo abbandonare? Non ci riteniamo all’altezza? Possiamo solo ripetere le lezioni del passato? Gli "stampi" già sperimentati sono gli unici riproponibili oggi? Dobbiamo dire di no. Le risorse, intellettuali e di fede per rispondere alla sfida ci sono: è possibile, anche nel terzo millennio, creare spazi attraverso i quali i credenti rendono visibile l’amore di Dio per l’uomo. Ancora oggi si può sperimentare nella liturgia un anticipo di Paradiso: ovviamente occorrono luoghi, oggetti, suoni, voci, luci, movimenti coerenti con questa tensione».
Il volume raccoglie per la prima volta i testi in materia delle conferenze episcopali. Quali sono i punti in comune? E perché faticano a diventare patrimonio diffuso?«Tutti i testi censiti presentano una visione ecclesiologica unitaria, frutto di un notevole livello di assimilazione del Concilio Vaticano II. Le forme celebrative, che sono la prospettiva che deve guidare nella progettazione dei luoghi liturgici, sono viste dai diversi episcopati in maniera univoca. È evidente infatti in tutti i testi la sottolineatura della centralità dell’assemblea che recupera un ruolo sacerdotale. Grande importanza nell’articolazione dello spazio è conferita all’ambone come forte richiamo a Dio che parla all’uomo con parole d’uomo. È enfatizzato il fonte battesimale quale "pasqua" alla partecipazione alla vita divina: pertanto la sua collocazione corretta è presso l’ingresso. Soprattutto è chiaramente sottolineata la preminenza dell’altare e come debba essere il centro intorno al quale l’assemblea si dispone: tutti i documenti evidenziano che l’altare deve essere "circondabile", scindendo anche il luogo della celebrazione eucaristica da quello della riserva eucaristica. Ma questi documenti restano troppo spesso negletti. In questo ambito manca la comunicazione anche tra le diverse nazioni: negli anni Novanta, quando sono stati emanati i testi della Cei, si riteneva erroneamente che nessun episcopato avesse fino ad allora affrontato il tema. Il lavoro, in alcuni casi davvero ciclopico, compiuto dagli episcopati nazionali è spesso rimasto ignoto anche a quanti avrebbero dovuto conoscerlo per ragioni professionali. È questa una delle ragioni del volume».Può indicare dei casi «esemplari» di riforma liturgica?«Dove si è creata un’alleanza tra committenza, comunità e progettista, i risultati sono stati positivi. Tra i quali, in contesti importanti, ricordo quello della cattedrale di Milano. Meno felici invece gli esiti quando un professionista, anche di grande valore, o un artista di fama vengono lasciati soli, come è accaduto ad esempio nella cattedrale di Pisa: se esteticamente possono convincere, non funzionano invece a livello liturgico. Altre volte un giusto percorso non sfocia in un risultato convincente proprio per il poco coraggio nelle scelte estetiche, come nel duomo di Trapani. Tra i casi positivi in contesti per così dire quotidiani, un esempio è il nuovo spazio liturgico che affianca la chiesa parrocchiale di San Floriano in Gavassa a Reggio Emilia, segnalato anche dalla fondazione Frate Sole di Pavia. L’interazione fra gli architetti Silvia Fornaciari e Marzia Zamboni, il parroco don Angelo Guidetti e la vivace comunità ha consentito di raggiungere un risultato rispettoso del passato e, insieme, capace di valorizzare il momento della comunità orante».