Agorà

La mostra. A Varese le barche di Giuliano Tomaino navigano sul mare del presente

Alessandro Beltrami lunedì 14 novembre 2016

Giuliano Tomaino al lavoro sull'opera "Come può il mare", 2015

Un mare rosso di vernice. Un mare nero di carta vetrata. Un mare trasparente (uno solo, e il titolo è – significativamente – Giorni lieti) di cristallo. Sopra galleggiano dipinte barche come ombre, o come ex voto, o costruite di fasciami di ferro arrugginito. Sono gli elementi che più colpiscono in “Punctum”, personale di Giuliano Tomaino presso lo Spazio Lavit a Varese (fino al 24 dicembre) inaugurata sabato scorso. Non mancano alcune delle presenze iconografiche consuete nel lavoro dell’artista del Levante ligure (nato alla Spezia nel 1945, vive e lavora a Sarzana) come gli uccellini e i cavalli a dondolo che avevano popolato il decumano di Expo. Così come non manca il rosso-vita che di Tomaino è una sigla. Ma che qui deve lottare con un nero profondo. «Ho scelto come titolo “Punctum” – spiega l’artista – perché sentivo l’urgenza di ricapitolare e allo stesso tempo di mettere un punto sull’indifferenza della storia». Questo mare per Tomaino è una sorta di specchio attraverso cui osservare un mondo a una svolta: «Quando vediamo queste navi cariche di persone che attraversano il Mediterraneo, e tante volte inghiottite, dobbiamo pensare che il mondo cambia. Ma è una mostra che parla di me, del mio essere a un “punto”, al tempo di un bilancio, perché anch’io mi riconosco nel flusso di una storia». I segni semplici nascono dunque dall’attualità e insieme la travalicano. Come spiega la curatrice della mostra, Marina Corgnati, «in queste barche c’è anche, ma non solo l’emergenza del Mediterraneo. Tomaino riesce a superare il fatto di cronaca per richiamare a un’assunzione di responsabilità. Questa barca è un giocattolo, è un archetipo, è una tragedia. È la necessità che l’arte recuperi la vocazione umanistica che per secoli l’ha sorretta. “Punctum” è allora attenzione puntuale che restituisca umanità a quegli uomini, ma anche al nostro sguardo sull’arte».

Giuliano Tomaino, "Luci", 2016 - Stefano Lanzardo


L’architetto Mario Botta, che con Tomaino collabora da una decina d’anni, presente all’inaugurazione, osserva però una qualità nuova nel lavoro dell’artista: «Nel passato di Tomaino aveva prevalso il segno iconico. In questa mostra però vedo uno scarto importante: usare la carata vetrata e chiamarla Mediterraneo. È un’idea profonda, ancora più profonda del segno. Un mare nero, che è il Mare Nostrum, ed è un cimitero. Sono opere che segnano un momento storico, perché non si limitano a richiamare il dramma delle carrette del mare ma ci costringono a fare i conti con la nostra stessa complicità». L’architetto si sofferma poi su Luci, relitto rovesciato di una barca, lamiere arrugginite dentro cui riposano biglie di vetro rosso: «Sono anime che abitano quella barca, una presenza nascosta in attesa di essere riconosciuta. L’etica e la capacità espressiva di Tomaino si fondano su una presenza semplice, povera e potente come questa materia, che eppure condensa in sé tutta la condizione umana».