Siamo chiamati a riscrivere il vocabolario del lavoro, se vogliamo evitare il declino dell’Italia e della nostra civiltà. Il mondo sta cambiando troppo velocemente, e dobbiamo re-imparare a dire “lavoro” e le parole del lavoro, se vogliamo crearne di nuovo e ritrovare un rapporto di reciprocità con esso. Oggi il lavoro soffre anche perché mancano nuove grandi narrative e codici simbolici capaci di raccontarci che cosa hanno in comune l’attività dell’operaio nella fabbrica e quella di chi passa dieci ore al giorno di fronte a un computer, o di chi vive speculando sui mercati finanziari, o di chi viene pagato per fare la fila al posto di altri (ricchi) alla posta o al cinema. Se non trovassimo più un comune denominatore tra queste attività umane, come potremmo continuare oggi a usare le parole “lavoro” e “lavoratori”? [...]“Lavoro” è senza dubbio una parola grande, e quindi ambivalente. È la parola che apre la nostra Carta Costituzionale, ma anche quella che apriva la porta di Auschwitz (
Arbeit macht frei). È al centro della grande esperienza monastica (
Ora et labora), ma la Bibbia associa i mestieri a Caino, il fratricida. E ancora oggi il lavoro è fatto di azioni alte e nobili, ma anche di grandi abusi su uomini, donne e bambini [...].Se ascoltiamo la gente del nostro tempo, ci accorgiamo subito che molte delle riflessioni sul lavoro oggi nascono dalla presa di coscienza che il modo di lavorare affermatosi nell’ultimo secolo e mezzo sta velocemente tramontando. Il nostro immaginario collettivo e il codice simbolico del lavoro sono figli della cultura contadina (grande luogo cui guardare per capire ancora oggi il lavoro) e del mondo della fabbrica, dove il lavorare, duro e aspro, ha liberato milioni di uomini e (meno) di donne dallo status di servi della gleba nel quale si trovavano nelle campagne ancora feudali. Una liberazione che nei primi decenni, e non raramente ancora oggi, non era avvertita come tale, perché il lavoro è associato alla fatica, fin da Adamo; e la fatica a volte oscura la memoria del passato, che magari viene idealizzato [...].Non posso né voglio però dimenticare che il lavoro, se è vero lavoro, è anche fatica, sudore, lacrime. Le lacrime sono il companatico quotidiano del lavoro, tanto che, senza lacrime, sudore, fatica è probabile che non si tratti di lavoro, ma di qualcos’altro. Faticare quando si lavora è semplicemente parte della condizione umana. E chi non lavora perché ha troppe rendite o privilegi, e non fa quindi l’esperienza della fatica, non riscuote la simpatia e l’approvazione di chi ama la democrazia e la persona; perché chi potrebbe lavorare e non lavora si priva, anche per auto-inganno, di una delle esperienze etiche e spirituali più vere della vita. Chi lavora sa che ha iniziato veramente a lavorare non tanto quando ha ricevuto la prima busta paga, ma il giorno in cui ha fatto la prima esperienza della fatica, della durezza e della difficoltà del lavorare. Se ci si arresta prima della soglia della fatica, non si entra nel territorio del lavoro [...].Nonostante la cultura utilitaristica, sempre più pervasiva nella nostra civiltà dei consumi e della finanza, ci voglia convincere che l’obiettivo delle buone società sia “minimizzare le pene” e ‘“massimizzare i piaceri”, in realtà la vita ci dice che esistono delle “buone pene” e dei “cattivi piaceri”. Le buone pene sono anche, e soprattutto, quelle del buon lavoro, dello studio serio, dello sport senza doping, della scienza; i “cattivi piaceri” sono la maggior parte di quelli che nascono da ricchezze senza lavoro (speculazione, lotterie, rendite), dimenticando così, come ricorda Francesco Guccini, che felicità non è «anagramma perfetto di facilità, barando su un’unica lettera».Non tutte le pene e le lacrime del lavoro sono però buone e generative. Non sono buone, anzi sono pessime, le troppe lacrime dei tanti servi e schiavi ancora presenti nel nostro mondo e tutte quelle che non sono accompagnate dalla speranza del raccolto [...]. Come sono molto cattive le lacrime versate da quei lavoratori e lavoratrici – e sono ancora milioni e milioni nel mondo – che faticano senza un giusto salario, diritti, sicurezza, salubrità, rispetto e dignità. O quelle versate dai tanti che il lavoro non ce l’hanno, perché l’hanno perso o perché, esperienza forse peggiore, non l’hanno mai avuto. Le lacrime senza pane e senza sale (salario) sono lacrime e basta.Per tanti il lavoro, con le sue gioie e con le sue lacrime, è stato, ed è, il lavoro della fabbrica. Anche in Italia l’economia della fabbrica è stata un frutto diretto dell’umanesimo civile, e poi della modernità che ha sferrato una guerra campale al feudalesimo e ai suoi rapporti servo-padrone. È nata da quell’illuminismo riformatore di Vico, Genovesi, Dragonetti, Filangieri, Verri, Beccaria e molti altri meno noti, ma non meno essenziali all’Italia moderna e all’Europa. La lotta anti-feudale dei nostri riformatori settecenteschi, molti dei quali fondatori dell’“economia civile”, cioè la battaglia contro i privilegi e le rendite legate al sangue e allo status, è stata il loro modo di dire che la nuova Europa doveva essere “fondata sul lavoro”. Questa tradizione e queste battaglie sono poi continuate nel Risorgimento, fino alla Resistenza, e sono state attraversate e irrorate da quel grande movimento cooperativo nel quale il lavoro è stato concepito e vissuto con tratti culturali e antropologici in parte sostanzialmente diversi da quelli che si stavano affermando nel capitalismo nascente.Guai a dimenticare questa nobile e dolorosa genesi del lavoro, anche del lavoro nella fabbrica. Se l’Italia industriale è stata capace di produrre miracoli economici, è perché in quelle fabbriche si sono condensati secoli, millenni di storia, di arti e di mestieri, di professioni, di abilità. Il made in Italy che ancora piace nel mondo, e che ci sta salvando dal baratro (per ora), è frutto di fabbriche abitate da saperi antichi, di operai figli dei mezzadri-imprenditori, dei mastri e degli artisti che fecero Firenze e Mantova, che misero assieme bellezza e catena di montaggio, estetica ed etica del lavoro. La fabbrica non è stata solo il campo della battaglia operai-padroni: è stata anche, e credo
prima, una grande officina cooperativa da cui è rinata una Italia diversa, fondata sul lavoro e ogni giorno rifondata dai lavoratori, compreso quel lavoratore che chiamiamo imprenditore.Allora, se il posto lasciato dalle nostre “fabbriche civili” verrà domani preso da un (ancora lontano) modo di produrre beni e servizi più umano e umanizzante, potremo star sereni; ma se questo vuoto – non solo in Italia, ma presto anche in Europa e in Occidente – sarà riempito da nuovi rapporti servi-padroni, da un neo-feudalesimo – i cui segni non mancano in una cultura economica che sta riponendo, come nell’
Ancien régime, le rendite al centro del sistema sociale – allora c’è da essere molto preoccupati.