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Convegno a Napoli. L'arte cristiana, nata da quella tomba vuota

Jean-Paul Hernández giovedì 5 maggio 2022

“Le donne al sepolcro”, mosaico, VI secolo. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare Nuovo

Anticipiamo una sintesi dell’intervento introduttivo del gesuita Jean-Paul Hernández al convegno “Quale arte sacra oggi?”, in programma domani e venerdì presso l’Aula Magna della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli. Promosso dalla Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia di Napoli, della quale Hernández è direttore, in collaborazione con la Fondazione Culturale San Fedele di Milano e con il patrocinio della Fondazione Posillipo, il convegno ha la direzione scientifica di Giorgio Agnisola e Andrea Dall’Asta e vede gli interventi tra gli altri di Giuliana Albano, Claudia Manenti, Secondo Bongiovanni SJ, Giorgio Bonaccorso Osb, Roberto Diodato, Bert Daelemans SJ, gli artisti Nicola de Maria, Ettore Frani, Giovanni Frangi, Bruna Esposito.


L’arte sacra cristiana inizia il mattino di Pasqua con la fede stessa. Perché il primo “monumento” dell’arte sacra cristiana è la tomba vuota. Se Le Corbusier ha potuto dire che “l’architettura inizia quando si mette una pietra sopra un’altra”, noi possiamo dire che l’architettura cristiana inizia quando una pietra fu trovata rotolata in modo inconsueto. Nel capitolo 20 del Vangelo di Giovanni Maria di Magdala «vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» e senza altra verifica dice: «hanno tolto il Signore dal sepolcro» (Gv 20,2). Quasi che Maria intuisse ciò che è avvenuto a Cristo guardando ciò che è avvenuto alla pietra. Ecco l’essenza dell’arte sacra cristiana: pietre che fanno intuire ciò che è successo a Cristo, e che spingono alla Sua ricerca. Nell’originale di Gv 20, il verbo usato nelle due frasi è lo stesso ( aireo, cioè “levare”) e il parallelismo sintattico è evidente. Con questo gioco retorico l’autore affida alla materialità della pietra l’attimo sorgivo dell’esperienza cristiana. Inoltre in ebraico “pietra” e “figlio” sono due parole che si pronunciano quasi allo stesso modo e che nella Bibbia spesso si richiamano a vicenda. La “pietra tolta” è dunque “il figlio tolto”. “Figlio” nel senso affettivo e protettivo con cui usiamo anche in italiano questa parola per un uomo che ci è caro. Per la Maddalena è l’“amato tolto”, che lascia solo un vuoto, una porta aperta. Questo parallelismo di Gv 20 è talmente impattante nel testo greco, e il passaggio fra “pietra levata” e “Cristo levato” è talmente illogico e sorprendente che più di un amanuense ne è stato turbato già nei primissimi secoli della tradizione manoscritta. Troviamo in effetti in un autorevolissimo manoscritto come il Sinaiticus (IV secolo) l’aggiunta «dalla porta». C’era evidentemente bisogno di sciogliere l’ambiguità e di chiarire che la “pietra levata” era stata levata non “dal sepolcro” (come invece Cristo), ma ben “dalla porta del sepolcro”, per garantire la differenza. Ma il testo più originale sembra quello che lascia la squisita ambiguità di una pietra “risorta”. Diversi esegeti ci spiegano che il Sitz im Leben di queste narrazioni sul sepolcro vuoto era l’usanza nata nei primi anni della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme di recarsi la mattina presto alla tomba di Cristo. Essa veniva probabilmente fatta visitare vuota e in essa si ascoltava liturgicamente l’annuncio della Risurrezione, proclamato da un celebrante, diventato “l’angelo” nei nostri racconti evangelici. L’arte sacra cristiana nasce dunque per il kerygma di Pasqua, anzi come parte integrante del kerygma di Pasqua. La complementarietà biblica fra “segno” e “parola” arriva qua a un parossismo: la tomba vuota non “dimostra” la risurrezione, ma la “mostra”, permettendo alla Parola di “riecheggiare” in essa. In greco: kat-echein (da cui “catechesi”). Il monumento della tomba vuota è la “catechesi” della prima comunità cristiana affinché la nuda Parola del kerygma possa diventare visibile e toccabile. Ma cosa si deve vedere e cosa si deve toccare in questa prima arte sacra cristiana? Non è un caso se la parola greca con cui quasi tutti i racconti della Risurrezione designano il sepolcro di Cristo è mnemeion che significa anche “monumento”. È un vocabolo molto vicino al termine “memoriale”, perché la radice è il verbo mimnesco (ricordare). In effetti dagli albori dell’umanizzazione un sepolcro permette di “ricordare” il defunto. In qualche modo di “mantenerlo vivo nella memoria”. Ogni sepolcro è una “rielaborazione del lutto” che cerca di “addomesticare” una assenza. Ma la valenza del “memoriale” nella cultura ebraica è molto più pregnante. Dire che Maria di Magdala si reca “al monumento” di Cristo è dire che essa si trasporta “attraverso la memoria” all’incontro stesso con Cristo. Ed è in effetti ciò che la narrazione evangelica ci presenta immediatamente dopo. Lei incontrerà “realmente” Gesù perché si è recata al Suo “memoriale”. Il passaggio è chiaro: “fare memoria” di Gesù diventa “incontrare Gesù”. Un Gesù poi inafferrabile (“ noli me tangere”) ma sufficientemente fisico e vivente per capovolgere il cuore della Maddalena e inviarla ad annunciare il Vangelo ai fratelli. Si noti che questo incontro “fisico” con il Vivente è possibile perché il “monumento” è vuoto. Il credente della prima comunità cristiana di Gerusalemme potrà nella sua vita fare un’esperienza reale di incontro con il Vivente, perché il “memoriale” che porta a questo incontro è vuoto. Il primo monumento dell’arte cristiana è dunque un “memoriale” estremamente originale. Non è una piatta rielaborazione del lutto che rappresenta il defunto nei tratti magari più belli e toccanti perché “ci piace ricordarlo così”. Ma è un vuoto per un incontro. È uno spazio che permette una circolarità fra la Parola ascoltata e i segni osservati. Segni che permettono di arrivare alla fede quando illuminati dalla Scrittura. «E vide e credette» si dice nel quarto Vangelo del discepolo amato al sepolcro (Gv 20,8). Ma subito dopo leggiamo: «Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura» (Gv 20,9). In una sorta di hysteron proteron l’autore ci dice che solo l’ascolto della Scrittura, cioè la Parola, permette ai “segni” (le bende lasciate nel sepolcro) di portare alla fede. L’arte sacra cristiana è dunque uno spazio dove i segni di morte diventano luogo d’incontro col Vivente. In questo senso possiamo dire che l’arte sacra cristiana è nella sua origine un’arte “incompleta”. Un’arte fatta per essere completata dalla Parola, dalla proclamazione dell’annuncio di Pasqua. Quando l’arte sacra cristiana vuole essere “completa” essa è semplice ricordo di un morto, nel maldestro tentativo umano di rivitalizzarlo. Quando l’arte sacra cristiana accetta di essere incompleta essa diventa parte di una proclamazione completa, dove i segni della morte diventano proclamazione della Vita. Nei testi del Nuovo Testamento, questo primo monumento dell’arte cristiana è squisitamente collegato al primo monumento dell’arte biblica tout court, che è il sancta sanctorum del Tempio di Gerusalemme. Anch’esso fondamentalmente presenta, sopra l’arca dell’alleanza, “un vuoto fra due angeli”. I due angeli che ritroviamo nel Nuovo Testamento da una parte e l’altra del sepolcro. Questo vuoto è paradossalmente un luogo rivelativo, dove si sperimenta una trasfigurazione dello sguardo. L’assenza diventa la promessa per eccellenza di una in-immaginabile presenza. E questa promessa è la relazione che permette di guardare ogni vuoto della terra come “segno” del Vivente. L’arte diventa “arte sacra cristiana” quando permette questa trasfigurazione. L’arte sacra cristiana è nel fondo “una cornice sul mondo” ma “una cornice che parla”, come quei altri due angeli che il giorno dell’Ascensione chiedono agli apostoli di «non guardare in cielo» (At 1,11), e dunque (sottinteso) di guardare semplicemente la terra, per vedere in essa tornare il Cristo. La terra diventa allora sancta sanctorum e tomba vuota. Cioè “vuoto per un incontro”. Per la prima volta non manipolato. Cioè per la prima volta con colui che solo è Signore.