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Trento Film Festival. Covelli, l'alpinista regista sull'Himalaya scopre la spiritualità

Luca Pellegrini mercoledì 29 aprile 2015
Bella ciao, il canto partigiano che intonano divertite, senza capirne una sola parola, per loro diventa un mantra. Il sorriso si apre sui volti segnati dalle rughe, dall’età. Hanno avuto pochissimo dalla vita, irta di difficoltà e privazioni. Ma Alfredo Covelli ne ha scoperto l’umiltà serena, la pazienza resa forte dai luoghi impervi ove vivono e dalla fede che ne ha forgiato l’animo.  Oltre due anni fa il regista romano, perdendosi tra le vette del Landakh – regione indiana racchiusa tra le catene montuose del Karakorum e dell’Himalaya, chiamata “piccolo Tibet” perché ha accolto migliaia di rifugiati di etnia tibetana che lì hanno potuto preservare e praticare liberamente le loro tradizioni buddiste –, è capitato per puro caso nei dintorni di Nyerma, nel distretto di Leh. Ha trascorso qualche giorno, cosa rarissima, in una casa di riposo per anziane monache buddiste. Da quelle parti era arrivato per guardare le stelle, quelle vere, che tappezzano il firmamento. Aveva scoperto, infatti, che dentro il suo cervello, in preda a una “guerra civile”, c’erano, invece, piccole stelle che non portavano affatto felicità. «La mia gamba non funzionava bene – ricorda –, la mia patologia, la sclerosi multipla, si era acutizzata, avevo avuto una ricaduta e pensavo ad un sogno con una data di scadenza. Qualcosa che forse in futuro non avrei più potuto fare, come scalare le vette più alte. Quelle montagne che mi hanno regalato vita e speranza e oggi registrano, invece, una terribile tragedia. Però la morte, lassù, è sconfitta da una vita che sempre si rinnova». Da quel breve soggiorno è nato un bellissimo film, With real stars above my head, che il Trento Film Festival – apertura domani – presenterà in anteprima nella sezione Terre Alte il 4 maggio. Una ricaduta nella malattia aveva quasi occluso ad Alfredo la speranza. «Non avrei mai immaginato di trovarla in questa comunità di monache. La mia sofferenza si rispecchiava nella loro. Così sono tornato e mi sono fermato un mese e mezzo per girare il film». Oltre alle difficoltà logistiche, il grande timore era se mai le monache avessero acconsentito a ospitare per un tempo piuttosto lungo un uomo nella loro comunità e farsi riprendere nei loro momenti di vita quotidiana, di lavoro e di preghiera. «Sono partito senza saperlo, avrei potuto turbare la loro quiete. Ma con me sono state materne, mi hanno aiutato in tutti i modi, soprattutto a raccontare me stesso e la mia malattia». Lo sguardo è benevolo, mai tragico o triste. «La malattia fa parte della vita. Noi, purtroppo, viviamo in un paese molto superstizioso e superficiale. C’è sempre grande paura nell’ammettere che si è malati, deboli, che si ha bisogno di qualcuno. Quando si fanno i nomi di malattie molto gravi, la reazione raramente è la comprensione, piuttosto il gesto stupido, oppure una presa di distanza. Invece, per sconfiggere la sofferenza, la malattia e la morte, bisogna comprenderle e considerarle parte della vita. Per questo con il mio film vorrei essere portavoce di persone che portano come me sulle loro spalle un fardello così pesante». Come quello che, materialmente, Covelli trasporta per raggiungere in pellegrinaggio il monastero più alto della regione e che simboleggia il peso delle sofferenze e dei peccati. È tornato diverso, a casa. «Un viaggio spirituale cambia sempre la vita di chiunque lo intraprenda – confessa –. Essere stato a contatto con la fede che queste donne esprimono ti rinnova, perché ti bagni in un mare più grande. La tua sofferenza si unisce ad altre sofferenze, si unisce alla loro, perché sono monache che non hanno mai ricevuto alcuna istruzione, che sono state maltrattate dalle loro famiglie e usate per lavori pesanti nei monasteri maschili». Se si potesse, ora vorrebbe fare la stessa esperienza in qualche monastero contemplativo italiano, magari sulle montagne del Trentino. «Sono stato in una comunità buddista perché, come dice il Concilio Vaticano II, ci sono semi di verità e di bontà in altre religioni. Sicuramente vorrei conoscere e assaporare anche lo spirito cristiano che sorregge tante nostre comunità religiose femminili». Una delle anziane buddiste, all’inizio del film, gli rimprovera di non riuscire a sopportare il silenzio. «Il silenzio assoluto si capisce soltanto lassù, in quel deserto sospeso. All’inizio, sopportarlo era molto difficile. Poi ho scoperto come fosse l’unico modo per poter ascoltare se stessi».