Basket. Lakers campioni, la fede di Kobe brilla ancora
Los Angeles, i tifosi festeggiano davanti a un murales di Kobe Bryant
A basket si gioca in cinque, ma i Los Angeles Lakers quest’anno sono scesi in campo sempre con un uomo in più. Chiamatelo pure effetto “ Black Mamba” (il soprannome che lui stesso si era dato ispirandosi al letale serpente), la mano del grande Kobe Bryant è stata ancora decisiva. Nel 2010 lo fu sul parquet. Questa volta nel cuore dei giocatori gialloviola, pronti a tutto pur di onorare la memoria del campione, scomparso nel tragico incidente in elicottero il 26 gennaio scorso insieme con sua figlia 13enne Gianna (Gigi) e altre sette persone. E così dopo i dieci anni peggiori della propria storia, i Lakers, vincendo domenica notte gara 6, si rimettono l’anello al dito di campioni Nba, eguagliando il record di titoli, diciassette, dei Boston Celtics, gli acerrimi rivali. Ma non è stata affatto una passeggiata. La squadra, trascinata dal duo stellare James-Davis, ha preso cammin facendo coscienza del proprio fenomenale potenziale. E in finale ha dovuto sudare non poco contro i sorprendenti Heat, la vera rivelazione della stagione più anomala di sempre. Onore a Miami, per avercela messa tutta: c’è il rammarico di non aver potuto contare sulle proprie stelle al 100% (soprattutto per gli infortuni di Dragic e Adebayo) ma la squadra ha dato tutto come ha ammesso tra le lacrime coach Spoelstra. E ha trovato nella favola di Jimmy Butler, da senzatetto a fuoriclasse, un guerriero su cui contare: «Porterò un titolo a Miami, l’ho promesso».
Ma i Lakers quest’anno avevano davvero una marcia in più. Kobe non c’era, ma è come se ci fosse stato. Nello spirito e sulle maglie, come la divisa nera ispirata proprio al velenoso serpente (Black Mamba) che Bryant stesso aveva disegnato tre anni fa. Coach Vogel ha svelato come non ci sia stato allenamento in cui i suoi giocatori non si siano caricati al grido di “1-2-3 Mamba”. Ricordato con gesti e parole in ogni partita: è già nella storia il tiro vincente da 3 sulla sirena contro Denver scagliato da Anthony Davis, col giocatore che esulta a squarciagola gridando: «Kobe». È l’immagine più significativa di un trionfo ispirato dall’alto, la vittoria del campionato più inedito che la Nba ricordi. A porte chiuse nella impermeabile “bolla” anti-Covid di Disney World che ora il calcio e altri sport vorrebbero importare altrove (ma sarà davvero replicabile?). Chi invece del virus non si è curato sono i tifosi dei Lakers scesi in migliaia nelle strade di Los Angeles, nonostante gli inviti a rimanere a casa e a evitare assembramenti. Ma tutto il mondo è paese, e allora via alla festa gialloviola con bandiere, fumogeni e fuochi d’artificio, con le gettonatissime canotte “8” e “24”, in omaggio a Kobe. È successo di tutto, perfino che la squadra per i festeggiamenti dimenticasse al palazzetto un giocatore, Quinn Cook, che ha scoperto solo via social che i suoi stavano tornando in pullman all’albergo.
Del resto per il popolo gialloviola è la fine di quella che sembrava una vera maledizione dopo il titolo del 2010. Nemmeno l’arrivo l’anno scorso di The King, LeBron James, era riuscito a invertire una rotta pesante di delusioni e sconfitte: sei anni senza qualificarsi ai playoff, un digiuno da record per una franchigia leggendaria, quella di Kareem Abdul-Jabbar e Magic Johnson tanto per citare due miti del parquet che hanno indossato questa canotta. E il “Re”, chiamato a raccogliere il testimone pesante di Kobe (cinque titoli in maglia Lakers) quest’anno non ha tradito le attese. Quarto titolo con tre maglie diverse (dopo i due con Miami e uno con la sua Cleveland), e alla soglia dei 36 anni una serie di primati personali che si allunga sempre di più e lo consacra a livel- lo planetario come degno erede di Jordan e Bryant. Cresciuto senza padre, LeBron anche questa volta non ha potuto trattenere la commozione e ricordare i sacrifici della madre per salvarlo dalla strada: «Ti amo, ti adoro e tu sei la ragione per la quale io sono riuscito a fare tutto questo - ha spiegato tra le lacrime - Dopo tutto quello che ci siamo ritrovati a fronteggiare, non potrò mai avere paura di nulla». Lui che non ha mai dimenticato anche il collegio cattolico St.Vincent- St.Mary High School di Akron, dove ha conosciuto sua moglie, ha ammesso come non sia stata facile la vita nella bolla e si è chiesto: «Vale la pena sacrificare la mia vita familiare? Non sono mai stato lontano da lei per così tanto tempo. Non ero presente quando mia figlia è andata all’asilo, mi sono perso il sedicesimo compleanno di mio figlio...». Ora potrà rifarsi. La promessa fatta a Kobe nel giorno del suo addio è stata mantenuta: «Chiedo al cielo di darmi la forza e di assistermi in questa missione» aveva detto allora.
E Kobe aveva previsto tutto, l’ha svelato sua moglie Vanessa congratulandosi col dirigente, amico del Mamba, Robert Pelinka. E ha aggiunto: «Vorrei che Kobe e Gigi fossero qui». Immancabile allora il ricordo va a quella tragica domenica mattina in cui Kobe e sua figlia erano andati a Messa prima dello schianto. La fede cattolica del Mamba che, come ha sempre ribadito, lo aveva salvato dai momenti più cupi della sua vita, brilla ancora nella sua famiglia: «Kobe, prenditi cura della tua Gigi, io penserò alle nostre altre figlie - aveva detto Vanessa il giorno del suo funerale -- Tutti insieme siamo ancora il team migliore. Possiate divertirvi in Paradiso fino a che non ci incontreremo ancora una volta». Proprio in virtù della sua fede insieme alla moglie era dedito a tante iniziative caritatevoli. Lo aveva spiegato una volta anche al Los Angeles Times: non voleva guardarsi indietro e sentirsi appagato per aver «avuto una carriera di successo, perché ho vinto così tanti campionati e segnato così tanti punti», ma intendeva lasciare qualcosa di diverso: «Devi fare qualcosa che abbia un po’ più di peso, un po’ più di significato, un po’ più di scopo». E uno degli ultimi suoi canestri solidali l’ha fatto conoscere di recente Vanessa sui social: i bambini della scuola elementare di St. Theresa Bethany in Uganda, Africa, avranno accesso all’acqua pulita senza dover percorrere chilometri e chilometri a piedi grazie al pozzo costruito in onore di Kobe e Gianna in collaborazione con la fondazione The Orange Catholic. L’eredità di Kobe, in campo e fuori, è più viva che mai.