Don Mauro Bonzi è stato l’unico sacerdote ambrosiano deportato in un campo di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Possiamo considerarlo a tutti gli effetti una vittima del nazismo in quanto, anche se tornò in Italia nel maggio del 1945, morì due anni dopo stroncato da una grave forma di tubercolosi contratta durante la prigionia.Il ministero del sacerdote legnanese si svolse essenzialmente in ambito educativo, prima nei Seminari diocesani e successivamente come rettore del Collegio Arcivescovile Pio XI di Desio. È qui che fu arrestato nell’aprile 1944 per aver nascosto armi all’interno del collegio e operato a favore dei partigiani. Non sappiamo quanto ci sia di vero in queste accuse. È certo che don Bonzi si assunse responsabilità non sue al fine di proteggere i suoi confratelli. Il sacerdote occupa perciò, a pieno titolo, un posto nella schiera di quei «ribelli per amore» che sacrificarono la loro vita per aver privilegiato la solidarietà in un momento storico dominato dalla sopraffazione e dal disprezzo verso ogni valore umano.Al centro del suo apostolato ci furono sempre le responsabilità educative derivanti dagli incarichi via via ricoperti. Da più parti è stato definito come «un uomo tutto d’un pezzo», un sacerdote con un forte senso del dovere e delle proprie responsabilità pastorali. Don Paolo Liggeri, che fu suo compagno di detenzione, scrisse: «Don Bonzi non era un intellettuale, ma un uomo sensibile, di gran cuore e certamente questo lo portò a rischiare, direi più sul piano della carità, che politico».Durante il periodo trascorso in carcere e successivamente nei campi di Bolzano e Dachau, è in lui costante la preoccupazione di far avere sue notizie al cardinale Schuster per chiedere aiuto e per rassicurarlo sulle sue condizioni di salute. Da San Vittore scrive: «Il carcere è per se stesso una punizione umiliante, anche per il colpevole. Trovarvisi senza colpa e per di più a contatto con ogni sorta di degenerati, diventa per un sacerdote un tormento morale raffinato, maggiore del quale non si può pensare».Poco prima di essere trasferito a Dachau riuscirà a far arrivare all’Arcivescovo un’altra lettera che conferma la sua determinazione di essere sacerdote anche in quelle circostanze: «Mi manca il conforto della S. Messa e di ogni altro privilegio sacerdotale, ma faccio tutto il possibile per mantenermi unito al Signore durante le ore di lavoro e di inoperosità. Sono con me altri quattro sacerdoti di diverse diocesi e ci sosteniamo a vicenda, se non altro nel richiamare il pregio dei doni perduti, nel pregare insieme, nell’esortarci alla completa rassegnazione ai voleri di Dio e nel consolare le tante afflizioni dei nostri fratelli. Questa vita è dura e mortificante, ma l’accetto a mia purificazione ed elevazione. Quando piacerà al Signore la prova finirà e tornerò alla mia cara Diocesi per essere nuovamente attivo ed esemplare nei miei doveri di ministero».Possiamo affermare che per don Mauro Bonzi il tempo vissuto nel lager è stato un tempo di Dio e la deportazione una drammatica esperienza religiosa. Don Roberto Angeli, sacerdote livornese e suo compagno di sventura, ha giustamente sottolineato che la presenza di sacerdoti nei campi di sterminio è stata provvidenziale, soprattutto per quello che essi rappresentavano come contrapposizione di valori agli pseudovalori del nazismo. «Non celebravamo la Messa. Ma la mattina, all’appello, quando sul piazzale del campo ventimila uomini doloranti iniziavano la loro giornata di pene inenarrabili, noi stavamo lì per compiere il nostro ufficio di mediatori tra Dio e l’umanità: quel campo brulicante era come una grande patena più preziosa di quelle dorate delle nostre chiese, una patena carica di tutte le atroci sofferenze del mondo, e noi la innalzavamo al cielo implorando pietà e perdono di pace. Sì, ci voleva in quei posti il sacerdote. Egli doveva raccogliere tutto quell’infinito dolore e presentarlo a Dio. Perché quel mare di dolore umano aveva un valore immenso e non doveva andare disperso. Forse era ciò che mancava alla Passione di Cristo per la redenzione e la salvezza di molti».Mentre il nostro Paese celebra quest’anno il 150° anniversario dell’Unità nazionale, è commovente rileggere il racconto di quando, durante il trasferimento a Dachau, i deportati, arrivati al Brennero, salutarono l’Italia intonando tra le lacrime «O mia patria sì bella e perduta». È grazie anche a questi «martiri della carità» se l’Italia ha saputo risollevarsi dalla disfatta della Seconda guerra mondiale e rinascere su nuove basi morali. Don Bonzi era uno di loro.