Letteratura. La voce profetica del "prete giusto" di Nuto Revelli
Lo scrittore Nuto Revelli (1919-2004): Einaudi riporta in libreria il suo “Il prete giusto”
È in uscita una nuova edizione di Il prete giusto di Nuto Revelli (Einaudi, pagine 112, euro 10,00) per cui il cardinale Gianfranco Ravasi ha scritto una nuova e ampia introduzione, della quale anticipiamo alcuni stralci in queste colonne. Il prete giusto è la storia di un uomo libero, don Raimondo Viale (19071984), costretto a una sfida impari e solitaria con gli eventi più aspri del Novecento. Abbandonato e malato, ha affidato a Nuto Revelli la memoria della sua vita. Sullo sfondo della campagna povera del Cuneese si snodano gli anni duri dell’infanzia, della Prima guerra mondiale, l’impegno nella parrocchia di Borgo San Dalmazzo fino allo scontro con i fascisti, le prediche coraggiose contro la guerra, l’imbarazzo della Chiesa, il confino. Poi, in un crescendo, i grandi drammi collettivi: l’8 settembre, le stragi naziste e fasciste, la persecuzione degli ebrei. E la scelta istintiva di schierarsi dalla parte giusta, con l’impegno prioritario, lui prete cattolico, di soccorrere le centinaia di ebrei in fuga dalla Francia.
Era il 1998 e da qualche mese l’editrice Einaudi aveva pubblicato Il prete giusto. L’autore, Nuto Revelli, me l’aveva inviato alla Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano che allora dirigevo come prefetto. A una dedica molto essenziale aveva aggiunto un’indicazione di pagina ove egli aveva segnato a margine un paragrafo. Era la voce del protagonista, don Raimondo Viale, che si confidava con lui: «Ci sono preti che si comportano da altoparlanti di Gesù Cristo, non solo con le parole ma anche coi fatti. Altri invece hanno scelto la vita quieta, il tran tran: nessun nemico. Io dico: se un prete non ha nemici, non è un prete. Gesù crea una rottura tale che lo chiamano “segno di contraddizione” ». L’immagine dell’altoparlante è decisamente moderna, ma in realtà potrebbe essere la trascrizione attualizzata di un termine biblico, «profeta». Esso, infatti, nella sua matrice greca significa «colui che parla ( phemí) in nome ( pro-) di Dio», divenendone il portavoce, non solo a parole, ma pronto anche a rischiare la vita per il messaggio proclamato: non per nulla la preposizione greca pro- può essere ugualmente tradotta con «davanti a» un uditorio anche ostile o refrattario, come era accaduto a tutti i profeti biblici e soprattutto a quella voce suprema, Gesù Cristo. E, in ultima analisi, il greco pro-, che significa anche «prima di», poteva essere anche uno sguardo sul futuro, e sarà questa l’accezione popolare dominante di «profeta» e l’interpretazione comune della sua figura. [...] Le voci di don Raimondo e di Revelli, nelle pagine che seguiranno, si comporranno quasi a dittico o, se si vuole, a duetto, un genere musicale che, pur adottando voci distanti per tonalità, genera armonia e simbiosi artistica. Don Viale è naturalmente il protagonista col suo dettato scarno, intarsiato di fatti ed emozioni, simile quasi a una sceneggiatura filmica, con colpi di scena, memorie ardenti, persino suspense e tensione. Eppure tutto il racconto è avvolto in una pacatezza e in una purezza di spirito da affascinare il lettore, nonostante che, a più riprese, don Raimondo riveli la sua amarezza e debolezza personale, anche con sorprendenti accenti poetici. «Adesso ho le ali basse – confessa – … Adesso sono un uomo morto, eh sì, come le foglie d’autunno che sono ancora attaccate all’albero ma con quel filo fragile, sottile… Adesso sono stanco, malato e ho anche un po’ di paura di mettermi in altri guai prima di morire, adesso che sono già al tramonto». Tuttavia il racconto sembra percorso da uno squillo di tromba, un po’ come immaginava che fosse la sua parola provocatoria il profeta biblico Ezechiele. E questo appare già fin dagli inizi, che si aprono in una famiglia povera del cuneese: «Avevamo poca terra, quasi tutta “rupestre”, a valle di Limone, in una zona di vipere… La nostra era una vita modesta, stentata. Avevamo una mucca, una capra, e non sempre un vitellino da far crescere ». Ecco, poi, la svolta radicale della vita di Raimondo, la vocazione al sacerdozio: il seminario, ove già primeggiava nel «club dei ribelli», pur amando quell’ambiente e i suoi educatori; l’ordinazione sacerdotale nel 1930; l’ingresso nella parrocchia di Borgo San Dalmazzo che sarà il fondale costante del suo ministero e della sua passione umana e pastorale. È curioso notare che di gran lunga più numerosi sono i preti ai quali egli fu legato da affetto e stima (sentimenti per altro ricambiati), così come lo furono soprattutto i vescovi e persino i cardinali, come accadde per l’arcivescovo Maurilio Fossati di Torino e quello di Genova, Pietro Boetto, intrepidi nel sostenerlo soprattutto quando era in causa la salvezza degli ebrei dalla brutalità nazifascista. Persino a Roma, in quel Vaticano che ai suoi occhi non avrebbe dovuto vincolarsi al regime mussoliniano del Concordato, aveva trovato solidarietà e sostegno. Proprio per questo, credo che egli non si sarebbe stupito che a scrivere per lui queste righe sia ora un cardinale e per di più appartenente alla Curia romana. In questa luce, particolarmente dura e sofferta era stata per lui la «sospensione a divinis » inflittagli nell’ultima fase della sua vita da una gerarchia ecclesiastica che aveva giudicato in modo freddo e giuridico una persona la cui incandescenza umana e spirituale e anche la sua indignazione antiistituzionale (religiosa e politica) non poteva essere compressa nello stampo rigido della normativa canonistica. Eppure egli, anche dialogando con Revelli, continuava a ribadire: «nonostante tutto credo nella Chiesa, in Gesù Cristo». In quel dialogo la sua testimonianza prosegue con un’appassionata autodifesa: «Io non ero un funzionario, ero un padre. Anche adesso, mentre ne parlo, piango. Anche di notte, quando ci penso, piango. Voi non potete immaginare la situazione di un prete che è affezionato alla sua gente, e che all’improvviso viene allontanato come un nemico, come un estraneo, come un indegno». Effettivamente egli era vissuto sempre spalla a spalla coi suoi fedeli, a partire dai tempi spietati del fascismo, preso a bastonate da una squadraccia fino a lasciarlo per terra esanime. Era il 31 marzo 1939. Un anno dopo, sarebbe stata una sua predica contro la guerra, pomposamente dichiarata dal regime, a strapparlo dalla sua comunità e a scaraventarlo in esilio ad Agnone nel Molise, dopo un arresto e un processo farsa. Anche là, però, nonostante il clero locale non sempre esemplare, troverà il calore della gente semplice che intuiva in questo prete, isolato nel confino, un uomo giusto e sincero. Rientrato nella sua Dalmazzo, vivrà l’esperienza tragica del secondo conflitto mondiale e soprattutto delle sanguinarie vendette dei tedeschi in ritirata dopo il crollo del fascismo e l’armistizio con gli angloamericani dell’8 settembre 1943, firmato dal suo conterraneo piemontese Pietro Badoglio. I sussulti della belva moribonda – terribilmente famosa è la strage perpetrata nella vicina Boves – sono descritti da don Raimondo in presa diretta. Emozionante è la vicenda tragica dei quattordici giovani partigiani fucilati e da lui assistiti sino alla fine, con una commovente confessione sacramentale alle soglie della fucilazione. Egli non esita, sfidando la crudeltà della banda repubblichina «Muti», a salvare con un astuto colpo di scena un giovane votato all’esecuzione. Ma soprattutto imponente è la trama che egli tesse per salvare gli ebrei, tanto da meritare nel 1980 il titolo di “Giusto”, suggellato da un emozionante viaggio in Israele del quale egli lascia un vero e proprio diario che Revelli definisce come un suo testamento e un «meraviglioso inno alla vita». Don Viale, infatti, considerò quel pellegrinaggio laico e religioso al tempo stesso come uno dei momenti «più intensi e sereni della sua esistenza. Là, infatti, aveva intravisto il Paradiso». Questa meta, gloriosa per il credente, sarà raggiunta quattro anni dopo, nel 1984, in una “Casa di cura e di riposo”, non lontano dalla sua amata Borgo San Dalmazzo, «tra il verde delle colline, in un finto castello antico in un’isola di pace». Là per cinque volte lo aveva visitato Nuto Revelli, interrogandolo e ascoltandolo, scoprendo la ricchezza interiore e persino la dolcezza oltre la scorza forte di un prete che, pur coinvolto fino all’ultimo anche nei grovigli della vita sociale e politica, ribadiva: «Non era tanto per la politica che mi lasciavo attrarre e coinvolgere, quanto per la questione morale, per il rispetto che si deve all’uomo, alla libertà». E questa sua totale dedizione allo spirito evangelico era stata attestata, ad esempio, anche quando era corso a sostenere e confortare tre spie fasciste, responsabili di incendi e fucilazioni, condannate a morte dai partigiani. Impressionante è il racconto del grido incessante di una donna che faceva parte dei tre votati all’esecuzione e dell’accompagnamento amoroso, sincero e non pietistico di don Raimondo. Egli, infatti, ripeterà, guardando in faccia già in anticipo la tappa ultima della sua vita: «Io morirò così, spero di morire così. Vangelo alla mano». Rileggendo la sua testimonianza raccolta da Revelli, mi è spontaneamente venuta in mente una battuta tagliente dello scrittore francese Charles Péguy (1873-1914), socialista eterodosso divenuto cattolico libero e radicale: «Navighiamo tra due schiere di preti: i preti laici che negano l’eterno nel temporale e i preti chierici che negano il temporale nell’eterno». Con questo paradosso che colpiva il clericalismo e l’anticlericalismo, egli coglieva il cuore del cristianesimo nel quale s’intrecciano in modo inscindibile il divino e l’umano, l’eterno e il temporale, l’assoluto e il quotidiano. È ciò che esprime in maniera mirabile l’inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni (1,14): il Logos, il “Verbo” divino, si fece sarx, “carne” umana, figura storica in Gesù di Nazaret. Per questo non è lecito al cristiano «negare il temporale nell’eterno», servire Dio ignorando l’uomo, ma neanche perdersi nell’immanenza delle realtà terrene dissolvendo la trascendenza, ossia la tensione verso il mistero divino. Dobbiamo, però, aggiungere che il sacerdote autentico non deve temere di essere sempre segno di contrasto, come suggeriva e testimoniava un ideale fratello di don Viale, anche nelle prove con la Chiesa ufficiale, il sacerdote fiorentino don Lorenzo Milani: «Dove è scritto che il prete debba farsi voler bene? A Gesù o non è riuscito o non è importato». È proprio ciò che aveva dichiarato don Raimondo.
(© 1998, 2004 e 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino)