Alberto Cavaglion. La voce «fioca e profana» del sacro in Primo Levi
Alberto Cavaglion
Un paio di anni fa, quando Alberto Cavaglion ha annunciato di voler esplorare la presenza del sacro in Primo Levi, qualcuno è rimasto sorpreso. Non solo per l’argomento, a lungo trascurato dalla critica, ma anche perché l’iniziativa proveniva da uno studioso che, a uno sguardo superficiale, sembrava essersi mosso in tutt’altra direzione.
Docente di Storia dell’ebraismo all’Università di Firenze, Cavaglion è stato infatti lo scopritore del Rapporto sull’organizzazione igienico-sanitaria del campo per ebrei di Monowitz- Auschwitz redatto da Levi per una rivista medica nell’immediato dopoguerra e considerato un annuncio di Se questo è un uomo. In un caso come questo, però, la contrapposizione tra razionalità scientifica e interrogazione metafisica si rivela di scarsa utilità e persino fuorviante. Lo si comprende rileggendo il testo della “Lezione Primo Levi” che Cavaglion ha dedicato, insieme con Paola Valabrega, alla «voce del sacro» nello scrittore torinese. Pubblicata da Einaudi, porta un titolo di per sé eloquente, Fioca e un po’ profana. Due aggettivi che ricorrono spesso in Levi, precisa Cavaglion: «“Fioco” rimanda alla mitezza, ma anche alla difficoltà di interpretazione – afferma –. “Profano”, invece, è chi non è esperto e dunque il dilettante nell’accezione più nobile del termine».
D’accordo, eppure quella voce c’è.
Sì, ma in forme tutt’altro che immediate, tutt’altro che prevedibili. Il rapporto di Levi con il sacro passa principalmente attraverso la Bibbia, ma si tratta di una Bibbia che viene fatta propria attraverso un continuo esercizio di riscrittura. Tecnicamente, si può parlare di parodia.
In che senso?
Nel senso di una composizione che riprende temi e forme preesistenti, ma riadattandoli in modo nuovo. Prendiamo l’esempio più noto, ovvero la poesia che Levi mette in epigrafe a Se questo è un uomo, all’interno della quale viene citata in maniera esplicita la preghiera centrale dell’ebraismo, lo Shemà Israel. «Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole», scrive Levi con una ripresa pressoché letterale, «Ripetetele ai vostri figli». Ma poi arriva la conclusione, di una durezza inappellabile: «O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi». Qui come in altre occasioni, la memoria della Scrittura si intreccia con l’esperienza del testimone, la cui voce finisce per ricalcare la voce di Dio. Il risultato è una preghiera secolarizzata, che si rispecchia nella preghiera biblica fino a confondersi con essa. La parodia contiene l’originale e, nello stesso tempo, ne è contenuta.
Da dove viene questa complessità?
La mia convinzione è che Levi abbia fatto proprio l’insegnamento di Dante, specie per quanto riguarda l’impossibilità della preghiera nei gironi infernali. Nel luogo in cui l’invocazione a Dio è interdetta, Dio può essere invocato solo obliquamente, magari attraverso l’artificio retorico adottato da Francesca da Rimini nel canto V: «Se fosse amico il re de’ l’universo… ». Ma Dante, per Levi, è anche maestro della parodia giocosa, beffarda. Gli stessi diavoli, in fondo, hanno le loro preghiere, astruse e incomprensibili come il famoso «papé Satàn Aleppe».
È solo un gioco letterario?
Niente affatto. In Levi tutto va sempre ricondotto a un’inquietudine profonda, che lo ha accompagnato per tutta la vita. Al di là di ogni specifica connotazione religiosa, il suo è veramente un atteggiamento di interrogazione incessante, inesausta, sostenuta oltretutto da un eclettismo vivacissimo, da una curiosità intellettuale mobilissima. Levi legge la Bibbia, si confronta con i filosofi, frequenta la letteratura scientifica avventurandosi in ambiti che esulano decisamente dalle sue competenze di chimico.
Si interessa anche al cristianesimo?
Di sicuro conosce bene i Vangeli, ma non mi spingerei oltre. Anche la controversia sul perdono, che a un certo punto lo contrappone a Jean Améry, rimane interna alla riflessione sulla Shoah. Questo non toglie che alcuni aspetti restino ancora da esplorare. Una figura che andrebbe più studiata, per esempio, è quella di Nicolò Dallaporta, il giovane professore dell’Università di Università di Torino che, contravvenendo al mandato delle leggi razziali, assegna a Levi una tesi in fisica e così gli permette di laurearsi. Triestino di origine e cattolico anomalo, Dallaporta è l’“Assistente” ricordato con gratitudine nel Sistema periodico, ma anche l’amico che, in I sommersi e i salvati, invita Levi a riconoscere un disegno provvidenziale nella sua vicenda: sei tornato da Auschwitz per testimoniare, gli dice.
Levi però respinge l’opinione come «mostruosa»…
Contraddicendo molto di quello che aveva scritto in precedenza a proposito dell’Assistente. È il segno, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto sia ampio e addirittura mutevole il quadro delle sue convinzioni. Trovo rischioso ogni tentativo di fornire un’immagine univoca di Levi, trasformandolo in icona di una retorica forzatamente generica. Anche in questo centenario della nascita, dobbiamo continuare a misurarci con la sua complessità, con quanto di irrisolto rimane nella sua opera.
A che cosa si riferisce?
Penso alla questione dello «scrivere oscuro» sollevata da Giorgio Manganelli. Nonostante le dichiarazioni di chiarezza, anche in Levi restano aree poco illuminate, nelle quali occorre inoltrarsi con particolare attenzione. La tendenza si accentua negli ultimi anni e ha la sua massima manifestazione proprio in I sommersi e i salvati. Non perché lo stile di quel libro sia poco perspicuo, intendiamoci. Il problema, semmai, è il pessimismo da cui è attraversato il ragionamento, l’estensione forse eccessiva assegnata alla cosiddetta “zona grigia”, la revoca in dubbio della stessa funzione del testimone.
Che cosa non la convince?
Quello che già non convinceva un grande amico di Levi, Vittorio Foa, che ammise di essere rimasto sconcertato da I sommersi e i salvati. In quelle pagine è come se si fossero perdute le tracce del sentimento di speranza che, nonostante tutto, sosteneva Se questo è un uomo e La tregua. Un sentimento, aggiungo, che anche allora si esprimeva attraverso l’eco della Bibbia. E che conteneva un monito oggi più attuale che mai: l’origine della discriminazione e dell’odio, avvertiva Levi, sta nel convincersi che «ogni straniero è nemico».