VALTIBERINA. La Valle dei geni
«O iubelo de core», verrebbe da esclamare, come nella laude di Jacopone da Todi, risalendo il Tevere, dalla città che diede i natali al grande poeta umbro, per tutta la valle che porta il nome del fiume, che arriva dalla Città Eterna, fino alla sorgente del Monte Fumaiolo. Non distante da lì, sul Monte Falterona, nasce il grande fratello fluviale del Tevere, l’Arno, le cui acque si alimentano con i bacini idrici della Valtiberina o «Alta Valle del Tevere», come vuole lo storico Alvaro Tacchini (vedi intervista, ndr). Un intarsio di piane, colline e di cime appenniniche che coprono l’arco territoriale di quattro regioni: dalla Romagna alle Marche, distendendosi compiutamente dall’Umbria alla Toscana. Una valle quella tiberina che, non solo idealmente, possiamo definire la “Valle dei geni”. «Sì amico al freddo sasso è ’l foco interno che, di quel tratto, se lo circumscrive che l’arda e spezzi, in qualche modo vive, legando con sé gli altri in loco etterno». Sono i versi delle Rime del divino Michelangelo Buonarroti che il 6 marzo 1475 venne al mondo nell’arroccata Caprese. Borgo immerso in un fantastico scenario silvestre, Caprese Michelangelo era il luogo in cui il padre dell’immenso artista, il fiorentino Ludovico di Leonardo Buonarroti, ricopriva la carica di podestà. E il Palazzo del Podestà è proprio la casa natale di Michelangelo che da qui andò via prestissimo, ma i semi del genio precoce, nel tempo hanno dato vita a una tradizione che rimanda principalmente alla sua arte scultorea. Nell’antica Rocca oggi ha sede la Biblioteca Michelangiolesca e il Museo dedicato all’artista, all’interno del quale si trova una magnifica gipsoteca con la collezione dei gessi dei suoi capolavori. Dalle due copie del Tondo Taddei, alla Pietà Rondanini, il viaggio secolare attraverso la genialità di Michelangelo approda a quella altrettanto aurea di Antonio Canova e Medardo Rosso e ai contemporanei Emilio Greco e Pericle Fazzini, le cui opere, donate, fanno bella mostra nel Giardino delle sculture. Siamo affacciati alla magnifica “ringhiera” naturale che guarda ai fulvi castagneti che conducono al “sacro sasso” de La Verna. Quella roccia francescana che probabilmente ispirò Michelangelo nella raffigurazione del masso da cui l’Uomo si solleva per ricevere il tocco di Dio nella Creazione di Adamo, che il mondo ammira nella Cappella Sistina. Dal genio artistico di Michelangelo a quello spirituale di San Francesco che si ritrova nell’eremo della Casella. Ci si arriva percorrendo un magnifico sentiero, la cui segnaletica richiama continuamente il “Tau” francescano, con la stilizzazione del saio dell’ordine del santo poverello. Questa chiesetta con tanto di romitorio, in cima al monte Foresto, venne edificata dagli abitanti della valle nel 1522, e rappresenta il luogo in cui san Francesco diede l’ultimo simbolico saluto a La Verna. Luoghi di meditazione e di preghiera, santuari terapeutici, ma anche “strade dei sapori” e di ricchi giacimenti enogastronomici. I moderni pellegrini della via Romea, infatti non restano insensibili al gusto prelibato del “prugnolo”, il fungo che regna sovrano nei boschi intorno a Pieve Santo Stefano. Luogo della memoria, Pieve Santo Stefano è la “Città del diario”, dove un “genio” dei nostri tempi, il giornalista e scrittore Saverio Tutino (recentemente scomparso), ha creato l’Archivio dei diari e l’Università dell’Autobiografia.
Il viandante dei giorni d’oggi, spesso qui più che dall’arte è attratto dalla bontà delle messi locali, dalle osterie e le locande in cui si cucina la ricercata carne chianina. Le succulente bistecche date dalla macellazione del vitellone bianco dell’Appennino centrale, che pascola pacifico nei campi cinti dalla maestà della riserva dell’Alpe della Luna. Luogo magico, arcano, popolato ancora da leggende popolari che lo vogliono scrigno inaccessibile, parco di tesori che altro non erano se non il bottino delle rapine dei banditi della Valtiberina. Ma leggenda cortese vuole che l’Alpe della Luna sia anche il nido dell’amore osteggiato tra Rosalia, figlia del podestà di Colcellato, e il conte Manfredi di Montedoglio. «Vedete messere, se quando la luna sembra appoggiata all’Alpe, uno potesse toccarla, tutti i suoi desideri sarebbero esauditi», disse lagrimosa Rosalia al suo Manfredi invitandolo all’impresa sovrumana del salire sulla vetta dell’Alpe per toccare la luna. Partiti assieme in sella a due destrieri, pare non abbiano più fatto ritorno, se non nell’immaginazione della gente del posto che ancora oggi nelle notti di luna piena ode il rumore di due cavalli al galoppo. Misteri di questa valle dei geni, secolari come quella Battaglia di Anghiari dell’altro divin pittore, Leonardo da Vinci. Nei giorni in cui si ipotizza che quel capolavoro incompiuto e sparito, databile intorno al 1503, possa ancora celarsi sotto gli intonaci di Palazzo Vecchio a Firenze, nel cuore medievale valtiberino di Anghiari, si celebra quotidianamente il genio leonardesco nel Palazzo della Battaglia. Spazio che nel frattempo è diventato anche Museo della Memoria e della Terra di Anghiari, in cui ogni 29 giugno si commemora l’epica battaglia che vide i fiorentini vittoriosi sull’esercito milanese, in quella che il Machiavelli così descrisse: «In tanta rotta e in si lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite ne d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò». Da Jacopone a Michelangelo, da san Francesco a Leonardo, ultimo dei geni che rintracciamo in questa Valle è Piero della Francesca. Fra i sentieri dell’arte, il percorso “pierfrancescano”, non può che partire da Sansepolcro, città natale del pittore, che nel Museo Civico conserva quattro suoi capolavori: La Resurrezione, il San Giuliano il San Ludovico e la Madonna della Misericordia.
Ma la Madonna di Piero che da sempre ha ammaliato artisti e visitatori di ogni epoca, suggestionando l’intimistica estetica cinematografica di Valerio Zurlini (in La prima notte di quiete), è quella che si trova nel piccolo museo di Monterchi. È l’affresco della Madonna del parto che in questo nostro vagare per la Valtiberina è metafora di “attesa” generatrice d’incanto e di stupore, fino alla Città di Castello di Luca Signorelli (in questi giorni in Mostra alla Pinacoteca Comunale) e di uno degli ultimi geni dell’arte contemporanea, il “combustibile” Alberto Burri. Gli essiccatoi alle porte della città, in cui sono conservati i capolavori di Burri, ci ricordano che nei campi da qui alla vicinissima San Sepolcro, si coltiva il tabacco Kentucky, dalla cui naturale inzuppatura, di fine ’800, originò il sigaro Toscano Extra-Vecchio. Una zaffata di gusto, per un’estasi senza tormento, in un paesaggio incontaminato dal quale ci congediamo con le parole scolpite in eterno da Michelangelo: «Amor può far perfetti gli animi qui, ma più perfetti in cielo».