La mostra. La Biennale cerca la tradizione del nuovo che parla al femminile
Maurizio Cecchettivenerdì 22 aprile 2022
“Elephant” (1987) di Katharina Fritsch, che apre il Padiglione ai Giardini
«Questo preciso momento storico in cui la sopravvivenza dell’umanità è minacciata...» scrive Cecilia Alemani per introdurre la sua Biennale d’arte di Venezia. Verrebbe da pensare alla bomba atomica, e ce ne sarebbe motivo. La questione posta dalla curatrice è forse più riflessiva: «Come sta cambiando la definizione di umano?». Di emergenza antropologica e di postumano parliamo da decenni. Ma, paradossalmente, che fine ha fatto il nostro statuto antropologico? Per la curatrice occorre ritrovare «le differenze che ci separano dal vegetale, l’animale, il non-umano» – allora perché dimenticare tutte quelle forme cellulari e ibride che tengono banco nelle nuove prefigurazioni tecnologiche? Ormai tutto è questione di marketing: quello economico, il padre-padrone di ogni “contrattazione” pubblica (lo abbiamo visto in pandemia quando si dovevano prendere decisioni che mettevano in gioco la computabilità delle perdite e dei vantaggi, e se ne faceva subito una questione di democrazia); ma anche il marketing ideologico – i diritti civili, degni di nota, vengono strumentalizzati facendo di ogni “minoranza” una occasione per mettere sotto accusa la democrazia –, e così via col marketing ambientale, sanitario, religioso, politico, artistico (uno dei più redditizi)...
Ma di che cosa avremmo bisogno oggi? Dopo un secolo di appello alla rivoluzione, al cambiamento, alla trasversalità, alla diversità, arriva il momento in cui si sente il bisogno di stabilità, di certezze, di orizzonti più chiari, mentre domina il caos. L’artista impegnato oggi sa vendere bene se stesso, perché si avvale del sistema della comunicazione, che è uno strumento di potere. L’attuale guerra nel cuore dell’Europa ci dice quanto sia facile creare disordine, fake news, post verità, per fini ovviamente ingannevoli. Ma sono sempre le stesse ragioni del marketing, anche bellico, che stabiliranno se le acque sono di nuovo piatte. Sotto intanto il mondo continuerà a produrre i suoi gorghi.
Una Biennale c’entra qualcosa con questo? Non amando la sociologia che prende il posto dell’analisi storica ed estetica, direi che l’arte si è ormai abituata un po’ troppo a essere paladina di valori sociali che c’entrano poco o niente col suo statuto linguistico e diventa piuttosto un gioco di società. Non è forse vero che anche nell’ambito dei diritti civili il radicalismo di certi atenei americani produce mainstream ideologico? Però si potrebbe osservare che questo progressimo oggi è quello di una sinistra che ha perduto il popolo, e va in giro, direbbe Baudelaire, con «le scarpe di vernice». Radicali nei principi, borghesissimi nei modi. Bastava trovarsi qualche sera fa alla presentazione del catalogo della Biennale – tre chili e trecento grammi di carta – sulla terrazza di Ca’ Giustinian col parterre di invitati doc, figure istituzionali, care signore e signorine, international vip, addette stampa, qualche invitato d’ordinanza e politici, seduti sui divanetti o in disciplinata processione al buffet con spuntini raffinati, polenta e schie, vini e succhi di frutta; e le chiacchiere di altolocate sfere che si accendono quando in terrazza giunge Roberto D’Agostino, Dago per gli amici e spia del gossip: alcuni lo corteggiano con pacche sulle spalle e frivolité.
Poi apri la pagina del catalogo della 59ª Biennale d’arte e non manca la paginetta con la dichiarazione congiunta di Cecilia Alemani e del Presidente Roberto Cicutto sull’Ucraina. Solo questo, perché, dicono, c’era appena il tempo di una «ferma condanna per l’innacettabile invasione dell’Ucraina da parte del governo russo, messa in atto pochi giorni prima che questa pubblicazione andasse in stampa». Polenta e schie sul belvedere vs fosforo e uranio impoverito a Mariupol. L’austerità, che presto colpirà tutti, avrebbe giovato anche alla terrazza veneziana.
Un’opera del canadese Tau Lewis del 2021 - -
Ci sono cose che puzzano di provincialismo lontano un miglio: come certe frasette della Alemani che omaggiando la tedesca Katharina Fritsch e la cilena Cecilia Vicuña per il Leone d’Oro usa espressioni come «ho capito che saremmo diventate grandi amiche» ovvero confessa col candore della sua età che la prima Biennale che abbia mai visto fu quella del 1999. Ma per restare alla guerra, l’invasione russa è cominciata due mesi fa, il tempo di orchestrare un momento che fosse la “porta” d’accesso a questa edizione c’era eccome: immaginate Celant o Szeemann cosa avrebbero fatto in poche settimane. Se il Papa riesce a unire due donne sotto la croce come segno di pace fra i due popoli in guerra, perché non tentare anche in Laguna questa deposizione delle armi? È una questione etica. Quando Marina Abramovic nel 1997 fece la sua performance Balkan Barok lasciò un marchio a fuoco sulle nostre coscienze. E nel 1993 il Muro Occidentale di Fabio Mauri? In questa Biennale qual è il testimone tragico di un tempo che si è messo a correre? Non ne ho visti. Non certo l’Elefante di Katharina Fritsch (del 1987), non le molteplici figure surrealiste, animiste, patologiche, spiritiste, magiche che la Alemani ha concentrato nella “cripta” del padiglione centrale con le opere della Carrington e delle sue sorelle d’arte o disperso nell’intero palazzo dei Giardini, riservando all’Arsenale installazioni più grandi e varie in una eccentricità che chiama creatività e arte ma non colpisce veramente nel segno. La Alemani si definisce demiurga suo malgrado. Mah, molti dubbi. Però una delle scelte qualificanti della curatrice è l’opzione femminile (a cui si aggregano le persone “non binarie”), che riguarda circa il 90 per cento dei presenti. Che senso ha tale sproporzione? La curatrice manda questo messaggio: il titolo della rassegna, Il latte dei sogni (fino al 27 novembre), preso da Leonora Carrington, è l’acqua magica dell’universo femminile, la sua capacità di dare al sogno la condizione di una camera iperbarica della mente, del sentire, del pensare, che può essere sortilegio, incubo, evocazione di fantasmi, sacrificio, un nuovo “oggetto ansioso”, da Claude Cahun a Leonor Fini, Carol Rama, Dorotea Tanning, Mary Wigman, la stessa Vicuña o Paula Rego; ed è la metafora da cui tessere sul proprio corpo, come Frida Kahlo, una «tradizione del nuovo» al femminile, senza dimenticare la finestra Lgtb.
Alemani, che si è imposta per alcune iniziative urbane a New York City, ha varcato l’Atlantico per portarci il pensiero giusto americano: i liberal Woke, che suonano la tromba degli oppressi, i sostenitori dei gender studies e del queer, gli attivisti del social justice warrior o del Black lives matter. Questo fronte radical muove masse eterodirette. Nasce nel mondo benpensante dei campus americani, lobbie intellettuali che pungolano minoranze più o meno offese, ma non rinunciano ai loro privilegi. Sostanzialmente proclamano «Feelings are more important than facts»: «I sentimenti contano più dei fatti». È più che legittimo fare una Biennale come quella di Cecilia Alemani: certo è più pulita e organizzata dei bazaar alla Bonami. Essa proclama il «ridimensionamento della centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura attuali». Ci mancherebbe che volessimo impedire a qualcuno di contrastare il predominio maschile. Resta da vedere se questo potere sia sostenibile a prescindere dai risultati artistici. Certo Carla Accardi, Nan Goldin, Louise Nevelson non desterebbero nessuna obiezione, ed esultiamo davanti alla bellezza tragica delle fotografie della polacca Aneta Grzeswykowska. Ma rimaniamo molto perplessi quando si annuncia la «fine dell’antropocentrismo», per portare alla luce storie «non ancora assimilate nei canoni ufficiali». Veramente la Alemanni crede che il maistream culturale celebrato dalla sua Biennale sia fuori dai canoni ufficiali, solo perché molti di questi artisti non sono mai stati esposti prima a Venezia? Purtroppo l’accelerazione della guerra in Ucraina ha incenerito gran parte delle premesse di questo progetto. Di fronte a certe tragedie è ora di tornare a ragionare secondo le grandi categorie etiche e metafisiche che hanno fatto la storia dell’Europa. Ciò che viene continuamente dimenticato quando si adottano schemi occidentalisti che rivendicano a sé la sostanza etica dell’aforisma di Mies Van Der Rohe Less is more, il meno è il più. Purché si ricordi che l’origine di quel pensiero era nei teologi medioevali e nella Scolastica. Non sarebbe male tornare, anche nell’arte, a fondarsi sull’adaequatio rei et intellectus.