Poesia e pandemia. La "Terra desolata" di Cees Nooteboom
Cees Nooteboom
Come scrive Cees Nooteboom in questo postremo Addio. Poesia al tempo del virus (Iperborea, pagine 92, euro 11,00), la domanda decisiva potrebbe essere quella dei primi due versi del libro: «Questo si chiedeva l’uomo nel giardino d’inverno, / la fine della fine, cosa poteva essere?». Già: che cos’è la fine della fine? E quando la fine finisce di finire? Per rispondere, Andrea Bajani, nell’intensa postfazione, fa il nome giusto, quello del sommo metafisico T. S. Eliot: « Addio è The Waste Land di questo primo torno di millennio. A un secolo quasi esatto di distanza dal poema eliotiano, Nooteboom dice una cosa che Eliot non poteva sapere: la fine non finisce, si prolunga all’infinito». E poi: «Dopo la desolazione, dopo la siccità, la distruzione – che era la terra da cui era spuntata la pianta malata della poesia di T.S. Eliot all’inizio del XX secolo – c’è la fine. Ma quella fine può continuare per sempre, la si sperimenta da vivi», seppure non necessariamente «con una forma di sofferenza». Sia detto per inciso: basterebbe quel capolavoro che è Tumbas, pubblicato nel 2006, ad assicurare allo scrittore olandese un posto di assoluto rilievo nella letteratura europea contemporanea testimoniando, qualora collocassimo questo libro accanto ad altri suoi memorabili come Nootebooms Hotel (2002) o Cerchi infiniti.Viaggi in Giappone (2015), la grande versatilità e inventività del prosatore.
Addio. Poesia al tempo del virus, però, ci ricorda che il poeta non è meno importante: l’antologia Luce ovunque, apparsa in Italia nel 2016 per Einaudi, ci consentiva di verificarlo su quasi cinquant’anni di attività poetica dal 1964 al 2012. Ma velocemente sul sottotitolo, Poesia al tempo del virus, per osservare che Nooteboom sottopone al vento di quell’ontologia eliotiana una Terra, la nostra, che però – se possibile – è diventata ancora più desolata: il virus pandemico di questi nostri giorni ha reso senz’altro più abbagliante quella luce d’apocalisse che i grandi scrittori distopici del secolo scorso (Huxley, Alvaro, Orwell) avevano ipotizzato in una dimensione storica (o post– storica). Mai avrebbero immaginato che la minaccia finale sarebbe arrivata dalla natura, riproponendosi in termini per altro non diversi da quelli coi quali si erano confrontati i nostri classici (Lucrezio, Boccaccio, Manzoni e, nel Novecento, almeno Camus, senza citare ovviamente l’altissimo modello della Bibbia). Il dato interessante, proprio per uno scrittore come Nooteboom, è che abbia scelto di farlo in poesia. Credo che ciò si debba al fatto che Nooteboom, grande viaggiatore e scrittore di cose viste, effabili insomma, si sia voluto qui confrontare con l’invisibile e l’inesprimibile, con le risonanze intime della tragedia, con tutto ciò che essa ha causato nelle nostre coscienze. In tal senso, ancora una volta, non si può dare torto a Bajani: «Il silenzio non lo fronteggia. Lo attraversa senza paura, e da quel silenzio manda dispacci».
Epperò, per molti che la malattia l’hanno davvero vissuta, quel silenzio s’è tradotto in una condizione di ansia soffocante, di apnea, di Sospeso respiro (sottotitolo: Poesia di pandemia), per stare al titolo d’una notevole antologia lirica, appena uscita per Moretti & Vitali (pagine 280, euro 25,00), con testi di Alberto Bertoni, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Giancarlo Sissa, Giacomo Trinci, una bella prefazione di Gabrio Vitali, un percorso iconografico di M. Cristina Rodeschini e una riflessione antropologica di Mauro Ceruti. Le parole di Vitali cadono in taglio, solo volessimo proseguire il discorso qui iniziato con Nooteboom: «Già dal secolo scorso l’umanità intera ha dovuto constatare che l’evoluzione scientifica, economica e tecnologica, che ha caratterizzato il suo stesso progresso, l’ha condotta sempre di più a vivere ormai alla temperatura della propria auto–distruzione e della minaccia irreversibile alla vita sul pianeta ». Una consapevolezza rimasta però sempre latente e che ora ha perso «ogni alibi di renitenza culturale » impadronendosi col virus della «più prosaica quotidianità di ciascuno, ponendo così tutti di fronte all’evidenza di una svolta antropologica della civiltà e della sua autocoscienza». Vorrei soltanto aggiungere che, al di là del tema, questa antologia si lascia apprezzare anche per altre ragioni di non poco conto, considerato lo stato davvero miserrimo della produzione poetica di questi ultimi anni. In primo luogo per il fatto di mettere in circolazione poeti davvero notevoli, all’altezza delle domande del nostro tempo, che per il momento sembrano fuori dal canone, ma implicitamente proponendoli per un canone nuovo. Poi, per aver accompagnato i testi con dettagliati e brillanti profili critici dei poeti antologizzati. Un dato infatti è sicuro: se vogliamo che la poesia sia salvata dall’odierna barbarie, dobbiamo curarla con ogni premura.