Agorà

Saggio. La terapia delle parole: quando scrivere è un modo per incontrare gli altri

Franco Arminio e Guidalberto Bormolini martedì 27 agosto 2024

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Non sono un letterato, non sono un accademico. Sono un artigiano. Anche spiritualmente mi sento un artigiano. Mi piace costruire e ricostruire sia materialmente che spiritualmente, ed è il cuore della mia missione. Lavorare a questo “breviario per chi ha perso la via” rientra appieno nella mia missione di cura, cioè di “prendersi a cuore”. Mi piace tantissimo incontrare persone e far incrociare percorsi di persone diverse, scrivere per me è un modo speciale di stare con le persone: tutti voi lettori di cui cerco di immaginare i volti e i desideri profondi sin da quando scrivo, chi lavora nelle redazioni, gli amici che mi ispirano e correggono. Rifuggo ed evito il più possibile la televisione e i social (e me ne fanno di proposte!), perché lì non mi sembra di “incontrare”.

In un’interessante raccolta di colloqui mistici di due donne, rimaste anonime, che mi donò il mio padre e amico spirituale, trovai questa frase: «Accogli tutti coloro che vengono, come inviati da Me, e dona loro un benvenuto regale. […] Accogli benevolmente con amore tutti coloro che giungono. Tu non devi vederlo come un lavoro. Oggi essi possono non aver bisogno di te. Domani forse sì. Io posso inviarti strani visitatori. Fa’ in modo che ognuno desideri tornare. Nessuno deve venire e sentirsi indesiderato. Condividi il tuo Amore, la tua Gioia, la tua felicità, il tuo tempo, il tuo cibo, lietamente con tutti. Tali meraviglie vanno rivelate». Ormai da lunghissimo tempo nell’incontrare persone non guardo più idee e ideologie, dogmi o credenze, censo e cultura. Guardo le persone e questo mi basta. Certe volte mi sono sorpreso – ma ormai dovreste sapere quanto mi affascina esserlo – ad ammirare persone che avevano idee o storie lontanissime dalla mia. Mi sono perfino domandato se, inconsciamente, andassi a cercare di proposito personaggi che mai avrei pensato avrebbero potuto attraversare la mia strada tanta era la distanza dal mio pensiero. Ma in fin dei conti il mio amore per l’Infinito, per il Tutto dovrà pure lentamente giungere ai tutti che “abitano” il Tutto. E non vorrei essere equivocato: li cerco per arricchire me, non perché penso di aver da insegnare loro qualcosa. Senza questa pluralità la mia vita sarebbe tanto impoverita. Se fossi davvero innamorato del Tutto, dovrei anche innamorarmi di tutti, e poi andare ancora oltre!

Un giorno fu chiesto a Isacco il Siro, straordinario autore monastico: «Cos’è un cuore compassionevole?» Lui rispose: «È un cuore che brucia per tutta la creazione: per gli uomini, per gli animali, per i demoni, per ogni creatura. Quando pensa a essi e quando li vede, i suoi occhi versano lacrime. La sua compassione è talmente forte e violenta e la sua costanza tanto grande, che il suo cuore si stringe e non sopporta di udire o di vedere il minimo male o la minima tristezza in seno alla creazione. Per questo egli prega in lacrime, a ogni istante, per gli animali senza ragione, per i nemici della verità e per tutti coloro che gli fanno del male, affinché essi siano conservati e perdonati. Nell’immensa compassione che si leva nel suo cuore, che è senza misura a immagine di Dio, egli prega anche per i serpenti».

Non sono così, purtroppo. Ma vorrei esserlo. Un piccolo passo è questo “breviario” col quale prendendomi cura di chi ha perso la via ricordo di continuo anche a me stesso quale è la Via che ho scelto e che amo. Il mio cuore ha un fuoco acceso, uno zelo che letteralmente è “ardore”, per andare incontro agli “erranti”, avendo io stesso molto errato.

Guidalberto Bormolini

Poesia e spiritualità strumenti di un nuovo umanesimo

Spiritualità e poesia: due parole vaghe, un connubio altrettanto vago. Se ne può parlare in tanti modi, se ne può parlare solo in modo confuso, con passi che somigliano a quelli di un cielo in un bosco fitto. Io posso dire di aver sempre tenuto con me la parola poesia. Mi sono interrogato su cosa fosse. L’ho letta, ho provato a farla.

La poesia mi ha salvato la vita o forse me l’ha rovinata, in ogni caso è una presenza indiscutibile nella mia mente e nella mia carne: la poesia che non ha a che fare col corpo è un’ingegneria letteraria che non ho mai amato. Io posso dire di avere avuto poche confidenze con la parola spirito, con la spiritualità. Mi sembrava di viaggiare in altre zone. Poi a un certo punto, un punto che ho intravisto pochi anni fa, questa parola ha cominciato a zampillarmi intorno. Mi è sembrato di capire che la questione del mondo più che economica era teologica. Mi è parso di sentire che l’eclissi del Sacro aveva creato nell’umanità una pericolosa condizione di miseria spirituale. E qui, forse, si è prodotto il tentativo di innestare il Sacro nella mia poesia. Il primo tentativo è stato un libro che si chiama Cedi la strada agli alberi. Poi ne sono venuti altri, poi è arrivato Sacro minore e infine Canti della gratitudine. Siamo nel cuore dell’intreccio, del travaso dallo spirito della poesia alla poesia della spiritualità. Non mi sono posto il problema se credo o non credo in Dio, mi sono posto il problema che il mondo non può andare avanti se persiste e si accentua il divorzio dal divino.
Il materialismo brutale e nichilista in cui siamo immersi non solo accentua le ingiustizie sociali e danneggia la salute del pianeta, ma è anche un’implacabile assicurazione sull’infelicità: le nazioni più avanzate economicamente sono piene di depressione e solitudine. Non è un caso che il responsabile della sanità degli Stati Uniti qualche mese fa ha elaborato un documento in cui si parla di pandemia di solitudine e in cui si invoca la riconnessione sociale come via d’uscita. La questione è che non ci possiamo riconnettere se rimaniamo quello che siamo adesso: animali spaventati, incapaci di affidarci e di credere. Prima della riconnessione è cruciale la rigenerazione dell’umano.

Serve tornare alla vita profonda se vogliamo tornare alla vita con gli altri. In superficie ci sono solo fuga e conflitto. Il bene esiste ancora, ma va scavato e portato alla luce con un lungo esercizio. Il bene non è un esercizio di stile, non è una vernice, ma un fuoco che sale da sotto e bisogna liberare le vie per farlo salire in alto e farlo incontrare col fuoco degli altri. Se vogliamo abitare degnamente il mondo, dobbiamo dare grande spazio alla poesia e alla spiritualità nella nostra vita. E questo gesto non è un gesto riposante, non ci mette in salvo. Ci rende più agili e vasti, ci fa sentire che confiniamo con l’infimo e con l’immenso. Siamo animali che possono farsi delle gentilezze, siamo un niente che affratellandosi a un altro niente diventa qualcosa: la stella della nostra vita è la relazione, tutto il resto è un pericoloso equivoco che ci porta alla rissa perenne dell’io, alla solitudine dell’individuo che vede gli altri individui come ostacoli alla sua realizzazione.

È chiaro che è necessario un radicale ripensamento dell’umano e un suo allargamento agli animali e alle piante: siamo tutti abitanti del piccolo pianeta del respiro, l’unico che per ora conosciamo in giro. La poesia e la spiritualità forse vanno pensate come strumenti di un nuovo umanesimo, non come feticci di cui farci mercanti. Sono strumenti preziosi in questo tempo, proprio perché ci mancano. Magari in un tempo, ulteriore avremo bisogno d’altro. Non riesco a scollarmi da un’idea di provvisorietà quando penso alle cose che incontriamo. Noi con la poesia e con lo spirito possiamo avere solo delle intimità provvisorie. Il resto, per chi ci crede, si trova in paradiso.

Franco Arminio