Letteratura. La teologia di Tolkien contro le ideologie
Anticipiamo l'editoriale del filosofo Roberto Presilla che apre il numero 2/2023 di "Vita e Pensiero", il bimestrale culturale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.
A cinquant’anni dalla morte, l’opera di Tolkien rimane uno dei grandi capolavori della letteratura. Il numero di copie vendute e traduzioni colloca il vecchio professore di Oxford all’altezza di un altro scrittore inglese di un certo successo, quel William Shakespeare di cui il filologo Tolkien discuteva le scelte linguistiche. Rispetto al pubblico, la critica si è mossa con una certa lentezza: ora ci sono alcune riviste accademiche dedicate agli studi tolkieniani. Come sempre accade, nel dibattito emergono tendenze contrapposte, analogamente a quanto è successo in questi decenni tra i fan. Il pendolo della storia mostra oscillazioni amplissime: si va dai campi “hobbit” di certa destra di decenni fa all’uso che le comunità di hippies fecero di Tolkien negli anni Sessanta del secolo scorso, interpretandolo come un antesignano del flower power. In questa scia si può leggere, forse, anche la scelta di Amazon Prime Video, che ha proposto una drammatizzazione in chiave inclusiva (con la serie Gli anelli del potere). Se è ovvio che una simile operazione si avvale, almeno in parte, della collaborazione degli eredi, è altrettanto chiaro che i grandi classici – Shakespeare docet – vengono riletti e reinterpretati, a volte con effetti che nel lungo periodo possono rivelarsi interessanti.
Nel caso della serie televisiva, tuttavia, è stata operata una (eccessiva) semplificazione dello spessore filosofico e teologico di Tolkien, in nome di priorità “morali” estranee alla sua visione. Si legge in Tolkien quello che il proprio quadro ideologico di riferimento suggerisce. Così la destra italiana lesse Tolkien a partire dalla lezione di Elémire Zolla e altri, mentre i giovani hippies americani lo inserirono nella propria critica al capitalismo. Tuttavia, come scrisse G.K. Chesterton in All’insegna della spada spezzata, «quando capirà la gente che è inutile leggere la propria Bibbia se non si legge anche quella degli altri?»: è facile leggere un testo sovrapponendovi il proprio punto di vista, dimenticando quelle accortezze che il metodo filologico – di sicuro praticato dal professor Tolkien – suggerirebbe.
Anche gli studiosi possono incappare nello stesso errore: si pensi a quanti discutono il “paganesimo” di Tolkien, chiedendosi quanto sia “cattolico” il legendarium. Qui non dovrebbero esserci dubbi: in una lettera a padre Robert Murray del dicembre 1953, Tolkien scrive che «Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione» (La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, lett. 142). Per questa ragione, aggiunge lo scrittore, ha pressoché cancellato ogni riferimento a qualcosa di “religioso”.
Se lo scrittore è cattolico e ritiene che la sua opera sia cattolica, come sintetizzare la sua visione? Si può abbozzare un tentativo a partire dal saggio sulle fiabe (Sulle fiabe, in Albero e Foglia), che presenta il meccanismo narrativo dell’eucatastrofe, che smentisce la «sconfitta finale, e pertanto è evangelium». L’eucatastrofe tiene insieme la virtù della speranza e una visione provvidenziale, con un deciso sapore teologico. Tolkien è pienamente consapevole di come le storie – e la Storia – non possano essere ottimistiche, ma debbano piuttosto fare i conti con il peccato, il male, la corruzione: il “lieto fine” di tanti film è la versione semplicistica e un po’ bugiarda dell’eucatastrofe, il capovolgimento sperato di una situazione che apre a un esito di bene, senza peraltro cancellare la sofferenza e la distruzione.
L’arco narrativo de Il Signore degli Anelli è strutturato sull’eucatastrofe, a più livelli. L’Unico Anello non viene distrutto da Frodo, che alla fine non resiste alla tentazione: è Gollum ad afferrarlo, staccandogli il dito con un morso, per poi precipitare nel baratro e distruggere l’Anello. Molti episodi poi sono piccole eucatastrofi [...]: in ogni caso, non è la capacità strategica o la preveggenza a garantire la vittoria, che peraltro è raramente indolore. Il contrario accade per chi viene perso: Saruman, per esempio, è un sapiente che cerca di dominare il reale sfruttando i mezzi a propria disposizione. Attraverso un Palantír – una pietra in grado di comunicare a distanza – si illude di studiare il Nemico, ma la sua mente viene corrotta dalla visione ripetuta della potenza di Sauron, che insinua nella sua mente brama di potere e insieme paura, consumando lentamente la capacità di scorgere le tracce dell’opera di un Altro nelle vicende della storia. Paura e brama di potere portano alla disperazione: l’unica difesa è la speranza, l’umile consapevolezza della provvidenza in azione.
Da esperto narratore, Tolkien sa tradurre il concetto in storie – ogni gesto di pietà o di bontà porterà frutto – e questo atteggiamento lo avvicina ad altri scrittori cattolici, come ad esempio Manzoni. Così Gollum, pur se consumato dalla passione per l’Anello, è più meschino che malvagio, e viene più volte salvato, anche da Frodo, perché suscita compassione. Sarà questa pietà a trasformare provvidenzialmente Gollum da antagonista a salvatore della Terra di Mezzo. Anche i combattimenti sono da inquadrare in una tensione spirituale, che ne costituisce il contesto. In quest’ottica è Faramir, per molti versi un alter ego di Tolkien stesso, a dar voce alle convinzioni dello scrittore, quando afferma di non amare le armi o la gloria, ma solo il popolo che si trova a doversi difendere da un nemico malvagio.
Questa concezione provvidenziale si basa su una visione affine a quella agostiniana. Il male non è l’opposto del bene, ma la negazione del bene, la sua diminuzione: per questo il male non può essere combattuto con le armi che il male stesso ha forgiato. Il concetto, che attraversa tutte le storie del corpus tolkieniano, è esplicitato anche altrove: in una lettera al figlio Christopher del settembre 1944 (La realtà in trasparenza, lett. 81), criticando duramente la demonizzazione degli avversari tedeschi, Tolkien commenta: «Non puoi combattere il Nemico con il suo Anello senza trasformarti anche tu in un Nemico». E più avanti, scrivendo a Rayner Unwin nell’ottobre 1952 (La realtà in trasparenza, lett. 135), Tolkien commentava così il primo test atomico effettuato dal Regno Unito: «Mordor è in mezzo a noi. E mi dispiace dover far notare che la nuvola gonfia creata recentemente non segna la caduta di Baradur, ma è stata prodotta dai suoi alleati – o per lo meno da persone che hanno deciso di usare l’Anello per i propri (naturalmente ottimi) scopi».
Non si può pensare di contrastare gli effetti della corruzione facendo ricorso a ciò che corrompe: l’Anello non può realizzare il bene perché è stato creato per asservire il bene a un disegno di potere. Ma la creazione è bella, e così è anche il Mondo Secondario di Arda: Tolkien contempla affascinato la bellezza del creato, la varietà degli alberi e dei paesaggi. E, obbedendo alla stessa logica che governa i suoi personaggi, il narratore inserisce Tom Bombadil, la figura più enigmatica dell’opera, regolarmente dimenticata nelle trasposizioni cinematografiche. È facile farlo, perché Tom Bombadil apparentemente non serve alla storia. Ma canta tutto il giorno, conosce e ama la natura senza pretese di dominio. Così, nel suo legame con la terra incorrotta, non può cadere vittima della volontà di potenza che l’Anello sa alimentare e incanalare. Forse il modo migliore di celebrare Tolkien è ricordare che anche Frodo e Gandalf, nel mezzo delle loro avventure, si sono intrattenuti con Tom Bombadil.