Calcio. La strana domenica a porte chiuse
Domani dicono che il campionato di calcio di Serie A riparte... Vero, ma mai assistito (senza averle viste) a partite del genere. Sono cinquant’anni che seguo il calcio, la mia prima partita allo Stadio avevo sei mesi, Lazio-Juventus, stavo sulle ginocchia di mia madre e le «spalle di mio padre», come canta Mia Martini ne La nevicata del '56. Un’annata straordinaria quella, ma mai quanto questo nefasto primo scorcio di 2020 che va quasi oltre le previsioni “finemondiste” per il 2012 vaticinate dai Maya. Ho visto partite sospese per nebbia, nonostante la comparsa messianica dei primi palloni arancioni, come le casacche degli uomini Anas. Domeniche passate a spalare la neve per liberare il campo e poi rinevicare e costringere l’arbitro ad annullare la partita tra la delusione di noi ragazzi che tornavamo dentro pomeriggi di sana noia quotidiana, chiedendoci amleticamente: «Si gioca o non si gioca?». Ho visto 22 calciatori costretti a continuare a giocare a pallone nonostante la strage dell’Heysel (finale di Coppa dei Campioni 1985, Liverpool-Juventus): 39 italiani morti per la violenza degli hooligans, una pandemia mai debellata del tutto, anche
quella. Ho visto la Juventus perdere lo scudetto del 2000 all’ultima giornata nella palude del Curi durante il diluvio di Perugia con l’arbitro Collina che di sospendere la partita non se la sentiva proprio. Scudetto alla Lazio, anche allora, come adesso? Chissà...
Di sicuro vent’anni dopo l’atteggiamento è lo stesso di quella domenica di pioggia fluiviale, non si dovrebbe, ma si gioca ugualmente. Le scuole, i cinema, i teatri, i locali pubblici restano chiusi, ma lo stadio no: rimane aperto, e solo per gli addetti ai lavori che devono fare in modo che lo showbiz del calcio continui. Nonostante il Coronavirus domani si va in campo
per i “recuperi”, a porte chiuse. In sei stadi si giocherà in un clima surreale, da Deserto dei Tartari o da Sopravvissuti (riguardarsi lo sceneggiato Rai del giovedì, metà anni ’70). Si disputerà persino il match-scudetto Juventus-Inter, perché non sia mai che il campionato venga sospeso definitivamente e si debba assegnare il primo scudetto con sponsor non previsto e non gradito, quello marchiato Codiv-19. Ma alla vigilia di quest’ennesimo capitolo fantascientifico che stiamo vivendo e scrivendo tutti i santi giorni, viene da chiedersi: come faranno i protagonisti in campo a rispettare le direttive vigenti in materia di prevenzione contro il virus? Riusciranno i nostri eroi della domenica a mantenere il metro e mezzo di distanza dagli avversari ancor prima che dagli stessi compagni di squadra? Le società hanno previsto lo spostamento delle poltrone nello spogliatoio durante l’operazione di svestimento e vestizione dei calciatori? Al di là che ormai si marca quasi tutti a zona e quindi siamo salvi dal pericolo della marcatura a uomo virale, ma in caso di punizione l’arbitro riuscirà a far rispettare i nove metri della barriera regolamentare. Unico frangente non a rischio è il calcio di rigore: tra il portiere e l’avversario chiamato a trasformarlo passano sicuramente 11 metri. Ma per il resto? Quanta amuchina serve per evitare il contagio da passaggio di mano di un pallone e l’altro per i falli laterali? E poi non
dimentichiamoci della “minaccia salivare”.
È risaputo che il calciatore, specie quello di fascia top, è avvezzo allo sputacchio costante, stile lama, durante tutto l’arco dei 90 minuti, al punto che è stato calcolato che se il terreno di gioco non fosse in erba, quindi assorbente, ma pavimentato, i campi della Serie A sarebbero tranquillamente delle piscine olimpioniche con la semplice raccolta del materiale liquido lasciato a terra da questi professionisti milionari. Insomma, siamo certi che vale la pena di giocare comunque a porte chiuse dinanzi a un simile scenario “apocalcistico”? O forse sarebbe meglio aspettare, calciare la palla in tribuna, meditare sul da farsi (prima che scoppi il primo
caso di Coronavirus tra i calciatori che farebbe scattare lo stop immediato e permanente, dicono...) e ripartire cancellando una volta per tutte la banale etichetta di Repubblica fondata più sul pallone che sul lavoro e sulla tutela dei cittadini? Ai poster, e non quelli di Cristiano Ronaldo, l’ardua sentenza.