E la religione civile ebbe il suo simbolo
di Massimo Introvigne
Nel 1967 il sociologo americano Robert Bellah pubblicò un celebre saggio sulla «religione civile» come elemento unificante degli Stati Uniti. Il melting pot degli americani venuti da tante terre diverse funziona, secondo il sociologo, perché tutti – pur mantenendo nella maggior parte dei casi la loro religione d’origine – adottano una «religione civile» che ha i suoi simboli e i suoi riti: la bandiera, l’inno, le feste, le parate, il culto non tanto di questo o quel presidente ma della presidenza. Il genio della «religione civile» americana, secondo Bellah, sta nel suo saper evitare i conflitti con le religioni «religiose». I simboli del cristianesimo – talora anche dell’ebraismo – sono assunti nei grandi riti civili, senza che l’americano medio percepisca un conflitto. Nel 1974 a Bellah fu proposto di scrivere un saggio applicando la sua categoria di «religione civile» all’Italia. Si convinse che in Italia non c’è una sola «religione civile» come negli Stati Uniti. Da una parte c’è il cattolicesimo, che funziona come fondo comune ed elemento identitario per moltissimi italiani, compreso un buon numero di non praticanti. Dall’altra c’è una religione civile laica, di cui Bellah vede il primo agente di diffusione nella massoneria, costruita non in armonia ma in lotta con il cattolicesimo. In Italia, dunque, scriveva Bellah, «non si tratta di religione contro politica ma di due specie di religioni e due specie di politiche; meglio ancora: due specie di religioni civili». A differenza degli Stati Uniti, la religione civile laica italiana si è costruita non sulla base del cristianesimo, ma contro il cristianesimo. E il socialismo e il fascismo sono state varianti della stessa religione civile, che ha tentato di costruire simboli e riti alternativi e ostili a quelli cattolici. Ma il tentativo ha avuto successo? La risposta non può che essere sfumata. Da una parte, la religione civile laica italiana è talmente artificiale e priva di radici nel nostro Paese da avere sempre un che di posticcio e di ridicolo. Dall’altra, il decorso del tempo ha reso alcuni simboli così familiari da generare nei loro confronti una certa affezione comune. È il caso della bandiera tricolore o dell’inno nazionale, le cui origini ideologiche – laiche e massoniche – sono ormai dimenticate, dopo che hanno segnato momenti lieti e tristi per generazioni di italiani, dalle guerre alle vittorie sportive. In questo quadro, qual è il ruolo del Vittoriano? Esso fu concepito come tempio centrale della «seconda religione» italiana, quella laica, massonica e anticlericale. L’idea è di Giuseppe Zanardelli (1826-1903), uomo politico fra i più massoni della storia d’Italia. Di lui si racconta che, in un momento di polemiche sui troppi parlamentari massoni, si tolse il cappotto a Montecitorio rivelando a tutti il grembiulino massonico. Per il memoriale al primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II (1820-1878), Zanardelli scartò tutti i progetti che avessero sia pur minimi riferimenti al cristianesimo, e scelse quello del giovane architetto marchigiano Giuseppe Sacconi (1854-1905), non solo perché la simbologia era del tutto pagana – l’Altare della Patria, cuore del monumento, è dedicato alla Dea Roma – ma anche perché, tranne il re defunto, il progettista non prevedeva statue di persone ma solo – molto massonicamente – d’idee: l’Economia, la Libertà, l’Unità. Il fatto che per costruire il Vittoriano si demolirono la torre medievale di Paolo III (1468-1549), il Papa che convocò il Concilio di Trento, e i tre magnifici chiostri del convento dell’Ara Coeli fu celebrato come un trionfo del progresso sull’oscurantismo. Sacconi era un personaggio complesso. Nipote del cardinale Carlo Sacconi (1808-1889), più tardi lavorò ai restauri di Loreto e rimase sinceramente colpito dal mistero della Santa Casa, il che non gli impedì di professare idee politiche liberali e di lavorare come architetto eclettico, spesso pronto a compiacere i committenti. Quanto al Vittoriano, tutto quanto riguarda la religione civile laica italiana lo ebbe come centro: prima la Grande Guerra, con l’importazione dell’idea francese del Milite Ignoto, poi il fascismo. Ma il Vittoriano non piace. I romani continuano a chiamarlo «macchina da scrivere» o «torta nuziale». In qualche modo lo spontaneo umorismo popolare rigetta una religione civile posticcia e fasulla. Eppure anche al Vittoriano ci siamo abituati. Nel contesto del rilancio voluto dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, è stata la camera ardente per i caduti nell’attentato del 12 novembre 2003 a Nasiriyya, in Iraq – simbolo di un eroismo al servizio disinteressato di popolazioni inermi, che corrisponde al più genuino ethos italiano – a rendere in qualche modo di nuovo popolare il Vittoriano, coinvolgendo in quell’occasione anche il mondo cattolico. Dalla riconciliazione fra le due religioni civili di Bellah siamo ancora ben lontani. Ma i simboli, a poco a poco, perdono i significati originari.
Ma è il monumento dei nostri difetti di Ugo VolliI monumenti sono segni, naturalmente. Ma nei casi più notevoli sono anche sintomi nel senso medico del termine: indizi importanti su come la collettività si rappresenta e si tradisce allo stesso tempo, espressioni del suo stato di salute collettivo, lapsus rivelatori. Il Vittoriano non fa eccezione. Dieci anni appena dopo la conquista di Roma e il trasferimento della capitale, nel pieno di una crisi sociale acutissima, mentre il nuovo Stato fatica terribilmente a organizzarsi, viene lanciato il grande concorso internazionale per celebrare con un monumento il re del Risorgimento appena scomparso (dal suo nome, Vittorio Emanuele, non da quello di una qualche vittoria viene il nome dell’opera, che peraltro non è neppure «altare della patria» come oggi si dice confondendo la parte – cioè la tomba del Milite Ignoto – con il tutto). All’appello del concorso internazionale le risposte sono entusiaste – centinaia di progetti da tutto il mondo – e megalomani, irrealistiche, impossibili, tanto che si lancia un secondo concorso solo nazionale con criteri più stretti; il risultato del quale è però quasi altrettanto megalomane: al di là di ogni giudizio estetico, è un fatto che il Vittoriano è probabilmente il più grande monumento «puro» del mondo, il solo oggetto puramente dimostrativo ad avere le dimensioni di una collina. Il mausoleo di Mao e quello di Lenin sono minuscoli al confronto e così la statua della Libertà. Per trovare paragoni bisogna pensare a grattacieli, fabbriche, ossari di massa. Di più, il Vittoriano, col suo bianco abbagliante nel bel mezzo di una città color mattone, rosso, ocra, scura di travertino di pini marittimi e di mura romane, spicca ancora di più e proclama squillante la propria algida presenza: impossibile ignorarla. Possiamo aggiungere che la costruzione del monumento richiese la distruzione di un quartiere medievale che nelle foto rimaste appare molto bello, la perdita di numerose tracce archeologiche, chiese e vicoli, la rottura di equilibri urbanistici antichi. E che per costruirlo furono necessari 25 anni, tantissimi anche per un monumento così imponente; parecchi dettagli furono in realtà terminati solo molti decenni dopo. Che sul piano urbanistico la sua continuazione fu quella Via dell’Impero voluta da Mussolini che distrusse definitivamente l’equilibrio fra città viva e archeologia in un luogo centralissimo di Roma, con effetti che durano ancora oggi. E, a costo di sembrare pettegoli, non possiamo non accennare allo scandalo del marmo fatto arrivare dal collegio elettorale del ministro responsabile Zanardelli.Insomma, al di là del cattivo gusto di un disegno falso antico fuori scala («bomboniera» o «macchina da scrivere», come lo chiamarono in molti) o della sua geniale anticipazione del postmoderno (basterebbe arcuarla un pochino e dipingerla a colori vivaci per ottenere la più famosa poltrona di Mendini...) i sintomi da leggere ci sono tutti. La megalomania e il culto kitsch di un’antichità da cartapesta (pardon, di marmo botticino) che afflissero poi Mussolini sono già là; e così i sospetti di corruzione, e soprattutto il disprezzo per il patrimonio archeologico, la voglia arrogante di imporre alla città il proprio segno a costo di uno stupro (in questo in realtà siamo largamente superati dai francesi e dai tedeschi, ma questo è un altro discorso). Ma questo segno è antiquato, marmoreo, orizzontale, pesante, pieno di capitelli corinzi e di bassorilievi, di cocchi e di statue allegoriche di città è regioni, statue equestri e pronai... Una cosa così viene inaugurata sessant’anni dopo il Crystal Palace di Londra, vent’anni dopo la Tour Eiffel, quando già a Torino era stata terminato il lentissimo cantiere della Mole Antonelliana iniziato nel 1863... Per capire l’anacronismo del Vittoriano, basta pensare che il concorso è contemporaneo all’inizio della Sagrada Familia di Gaudì, e che al momento della sua conclusione siamo già nel pieno dell’età dei grattacieli, col Woolworth Building che, con il suo "campanile", raggiunge già nel 1913 quota 241 metri. Nel Vittoriano, anche se ci piacesse il suo eclettismo falso antico, non possiamo non leggere il sintomo di un Paese arretrato, retorico, provinciale, incurante del suo patrimonio artistico, insensibile al gusto dei luoghi – tutti difetti che conosciamo bene. Di solito prima o poi ci si accomoda con le vecchie cose di pessimo gusto, ma il gesto di quel monumento è così rozzo che ancora colpisce; ed è un peccato che esso sia rimasto il simbolo dell’unità nazionale. Per fortuna il nostro Paese è anche altro e altra architettura, antica e contemporanea. Io lo vedo come un monumento ai nostri difetti, uno specchio deformante dei nostri problemi. Che abbia cent’anni e che ancora parli di noi non mi rallegra: mi spaventa.