Il dibattito. Ma la storia è davvero a una svolta epocale?
Harold Lloyd nella celebre scena dell'orologio del film “Preferisco l'ascensore!” del 1923, diretto da Fred C. Newmeyer (Wikimedia Commons)
Una delle questioni che maggiormente inquieta e affascina l’uomo contemporaneo non è conoscere approfonditamente le peculiarità del tempo in cui vive, ma stare al passo con le fratture del tempo. «Vivere in un’epoca di cambiamento e di passaggio» è diventata la prospettiva privilegiata da cui valutare l’instabilità del tempo presente. Corriamo così il rischio di scorgere ovunque svolte epocali: la cosa ci affascina e probabilmente asseconda il singolare piacere che l’uomo avverte situandosi sui crinali della storia. Siamo tentati di esercitare un profetismo minuto e ossessivo ogni qual volta denunciamo l’insorgere di un’epoca diversa dalla precedente. La storia umana è resa simile a un corpo disteso e inerte sotto lo sguardo analitico di un uomo che si lascia affascinare più dalle giunture spezzate, che dalla splendida continuità fisica. «Se prestiamo attenzione alle metafore con le quali viene descritta l’odierna situazione epocale, troviamo continuamente concetti quali “fine” o “crisi”, ma anche un largo uso del prefisso “post” – valori post-metafisici, società post-industriale, post-moderno – per indicare il nuovo che deve contraddistinguere il presente e il futuro. Anche qui incontriamo la stessa remora concettuale nei confronti del futuro: la coscienza diffusa è quella di una fine dell’epoca attuale, di una transizione ad una nuova situazione che, però, non si sa descrivere in modo positivo». In queste parole del sociologo tedesco Franz-Xaver Kaufmann è possibile scorgere un tratto distintivo della comune disposizione nei riguardi della storia e delle sue età. Ogni rottura epocale rischia di essere vissuta in termini esclusivamente rimediali e negativi: abbiamo la percezione di sconfinare più o meno drasticamente in un’epoca diversa dalla precedente solo in funzione di ciò che ci lasciamo alle spalle e non in virtù degli “stati nascenti” annunciati dai vagiti di una nuova epoca.
Si ha l’impressione che la storia umana venga sfogliata con una velocità crescente e che uno strano piacere accompagni la mano delle generazioni nel voltare sempre più spesso pagina, salvo accorgersi che il volume resta lo stesso e che, nonostante il proliferare di diagnosi storiche di rottura, le pagine delle varie epoche rimangono incardinate nel medesimo asse. Pubblicando nel 1949 il saggio Origine e senso della storia, Karl Jaspers parla per la prima volta dell’esistenza di una “Età assiale” (Achsenzeit) ovvero di uno stabile riferimento storico-culturale nel quale le epoche storiche successive hanno continuato a muoversi e succedersi. Per Età assiale deve intendersi un arco temporale che va dall’800 al 200 a.C. In questo periodo, all’interno del continente euroasiatico, hanno preso vita tradizioni religiose e filosofiche di assoluta rilevanza storica. Da quel momento in poi le varie epoche umane ruoterebbero attorno a un perno comune e stabile. Nel corso del periodo assiale e in maniera indipendente si sono succeduti straordinari eventi e figure: in Cina vive Confucio, in India Buddha, in Iran si propagano le dottrine di Zarathustra, mentre in Palestina, nel contesto del profetismo ebraico, si muovono le figure di Elia, Isaia e Geremia. Non meno rilevante è la nascita della filosofia in seno alla cultura classica greca.
Parlare oggigiorno di Età assiale significa addentrarsi nel fecondo dibattito che sta interessando ormai da diversi decenni ambiti scientifici e culturali diversi. Dalla diffusione dell’opera di Jaspers, da poco riedita in Italia (Origine e senso della storia, Mimesis 2015), fino alla pubblicazione del più recente saggio di Jan Assmann (Il disagio dei monoteismi. Sentieri teorici e autobiografici; Morcelliana, pagine 112, euro 11,00), la discussione sulla rottura assiale sembra arricchirsi di nuovi contributi critici. L’aspetto più interessante dell’intero dibattito risiede nel fatto che ciascuno dei suoi esponenti ha evidenziato una dimensione prioritaria dell’assialità. Alcuni studiosi considerano infatti l’età assiale prima di tutto una svolta radicale nell’autocomprensione delle religioni. Per la prima volta il sacro verrebbe connesso con l’idea della salvezza individuale e personale. La rottura che si consuma è pressoché radicale: dalle cosiddette religioni mitiche, fortemente improntate da una certa indistinzione tra il divino e il mondano, si passa alle nuove religioni di salvezza in cui le due sfere si separano generando una vera e propria “elevazione verticale”. La regalità sacrale, in modo particolare quella dell’Antico Egitto, si sgretola lentamente poiché il mondo umano-divino non è più percepibile come realtà unica e coesa.
Un ulteriore elemento di cambiamento è la connessione logica tra la sfera del divino e quella della verità. Nella religiosità assiale compare per la prima volta l’idea secondo cui la dimensione del sacro è anche la dimensione più autenticamente vera e reale. Svanisce dunque l’immagine del re divino che presiede e regge le cose mondo, mentre si fanno progressivamente largo figure di intermediari tra il piano della contingenza umana e quello della verità divina. Sono personaggi che il filosofo statunitense Robert Bellah racchiude nell’immagine dei rinuncianti: nuovi soggetti che, in virtù di una rivelazione divina o di una qualche forma di ascesi personale, pretendono di essere capaci di cogliere l’essenza del trascendente e di portarla a tutti gli altri uomini. Il rinunciante è sovente anche un denunciante ovvero qualcuno che, come sempre più spesso accade, viene emarginato ed estromesso; destini che in qualche modo accomunano i pensatori vanganti cinesi, gli asceti indiani, i profeti d’Israele o i primi filosofi greci.
Su un altro versante si collocano coloro che interpretano l’Età assiale in funzione di un radicale mutamento logico e filosofico, prima ancora che religioso e culturale. È questa la posizione occupata dal sociologo tedesco Hans Joas il quale rinviene nel periodo assiale prima di tutto la svolta di un pensiero che si fa ri-flessivo. In questo senso l’assialità designa l’alveo della razionalità umana intesa come capacità di ritornare sul dato dell’esperienza e come facoltà di avvalorare o giustificare la validità dei propri principi e contenuti. La razionalità riflessiva è dunque il tratto dirimente della scena assiale in cui, secondo Joas, siamo ancora immersi. Tale contesto sembra essere tutt’ora intimamente contrassegnato da «una tensione amplificata in modo inaudito tra l’ideale e la realtà». Proprio perché intimamente animate dalla spinta alla riflessività, le civiltà post-assiali sono in grado di conciliare un altissimo grado di frammentarietà con la continuità logica e strutturale che le sorregge. I continui processi di secolarizzazione e de-secolarizzazione che hanno accompagnato l’evoluzione della civiltà occidentale possono in qualche modo essere ricomposti, sebbene non deterministicamente, all’interno di un generale orizzonte riflessivo non ancora pienamente dispiegato. La storia è ancora disseminata di potenziali germogli.