Storia. Cento anni fa Palazzo Venezia, a Roma, passava dagli austroungarici all'Italia
Palazzo Venezia, a Roma, come si presenta oggi (da Wikipedia commons)
Alle 14 del 1 novembre, che cento anni fa cadeva di mercoledì, il ministro delle Finanze, Filippo Meda, «avendone ritirato senza opposizione le chiavi» prende possesso del Palazzo di Venezia, il grande gioiello rinascimentale di Roma. È forse la maggiore conquista territoriale dopo un anno e mezzo di guerra cruenta e inutile. L’Austria aveva le sue ambasciate in un quadrante straordinario di Roma. Quella presso il regno d’Italia, a Palazzo Chigi, in affitto dai principi, viene chiusa nel 1915, con la dichiarazione di guerra. L’altra, presso la Santa Sede, resta attiva fino al decreto del 25 agosto 1916, per cui «lo storico Palazzo di Venezia», esplicitamente escluso nel trattato di Vienna tra Francia e Austria, che ci cedeva il Veneto a conclusione della guerra del 1866, «entra a far parte del patrimonio dello Stato a titolo di rivendicazione italiana e a titolo di giusta rappresaglia».
La cerimonia è semplice, tutta burocratica. Accompagnano il ministro due alti funzionari e un notaio. Lo aveva suggerito il Papa stesso.
Claudio Gentile, giovane laureato Lumsa, reduce da un dottorato all’Urbaniana, sta ricostruendo in tutti i molteplici aspetti una vicenda di straordinario interesse. «Dal 6 agosto – ricorda Gentile – gli austriaci bombardano Venezia». È la scintilla che induce il governo italiano a entrare in azione.
Prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, che avverrà il 29, il ministro dell’Interno Vittorio Emanuele Orlando incarica il barone Carlo Monti, ambasciatore “ufficioso” in Vaticano, di informarne i vertici, con cui i contatti sono costanti. Monti si reca di buon mattino Oltretevere: «Non credo che un fatto simile sia mai accaduto in Vaticano: un rappresentante del Governo italiano seduto in familiare colloquio fra il Papa e il Cardinale segretario di Stato», riferisce nelle sue memorie.
Il Papa se lo aspettava, dopo la campagna di stampa iniziata in primavera. Ma, nonostante l’immediata reazione rassegnata, l’indomani la Santa Sede, senza informare il governo italiano, leva una formale protesta a tutte le Cancellerie. Gentile ha rintracciato il dossier nell’Archivio segreto vaticano: la motivazione giuridica è la necessità di tutelare il «diritto di legazione attiva e passiva» presso la Santa Sede, ma il problema è anche politico. Il governo italiano la attribuisce invece «ai rapporti con gli Imperi centrali». Si apre un contenzioso. Finita la sonnacchiosa estate romana, in attesa dello sgombero dell’ambasciata e della presa effettiva di possesso del Palazzo, il 2 ottobre il testo della protesta viene reso pubblico in Italia e provoca, rilevano in Vaticano, una «levata di scudi anticlericali», che preoccupa il Papa. Ancora una volta il tramite della «conciliazione ufficiosa», il povero Barone Monti, ricorda Gentile, è corto-circuitato: Orlando assicura che «darà disposizioni affinché la censura vigili».
Nel frattempo il 15 ottobre il Governo pubblica un decreto per destinare il palazzo a museo, anche per abbassare i toni e stemperare il valore simbolico dell’occupazione. Non aiutano i rovesci militari e le manovre per cambiare il governo.
Il leader interventista Leonida Bissolati, in un importante discorso a Cremona, il 29 ottobre, utilizza il vecchio cliché anticlericale, e l’accusa di germanofilia: «Maledicono la guerra italiana, sol perché l’Italia ha rivendicato un suo monumento che il Vaticano agognava tenere a perpetuità in usurpazione». Si pensa a una grande manifestazione a Roma con l’ex sindaco Nathan, gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, in occasione dell’occupazione del Palazzo.
Giuseppe Toniolo, interessato dal cardinal Gasparri, sconsiglia di pubblicare un articolo sulla “Civiltà Cattolica”: «In questo momento di passioni estreme sfruttate dai nemici di Dio e di ogni ordine civile, salvato il principio, non sarà mai soverchia la prudenza».
Meda assicura il Vaticano che «tutti i membri del governo, ad eccezione di Bissolati, son pieni di rispetto e venerazione per il Papa». Lo stesso ministro cattolico può così entrare nel Palazzo, sottovoce. Il caso diplomatico è (socch)iuso. Il presidente del consiglio Boselli, alla riapertura del parlamento, il 5 dicembre, riconosce – conclude Claudio Gentile – il contributo dei cattolici all’unità nazionale patriottica.Palazzo Venezia è destinato a museo, ma, nel confuso dopoguerra, non ci sarà nessuna iniziativa organica: solo la grande mostra delle opere d’arte recuperate e un primo allestimento. Mussolini ne coglie il rilievo e per vent’anni sarà in grado di rioccupare entrambi i palazzi austriaci: palazzo Chigi come sede del ministero degli Esteri e palazzo Venezia «degna sede di rappresentanza per il Governo del Re», come scrive nel regio decreto legge n. 1845 del 10 novembre 1924.
Oggi il progetto del museo, deciso cento anni fa, è stato rilanciato con forza e convinzione. Il Palazzo, sede di papi, di ambasciatori, di un dittatore, ha trovato, forse, la sua definitiva vocazione, aperto a Roma e al mondo.