La biografia. La solitudine di Matteotti, isolato anche dai "compagni" del Pci
Giacomo Matteotti
Un martire laico della democrazia, un eroe solitario precursore della democrazia parlamentare. Solo è la biografia di Giacomo Matteotti scritta da Riccardo Nencini, appena uscita per Mondadori (pagine 624, euro 22,00), che suscita tante riflessioni un secolo dopo. Consente ad esempio di replicare a chi minimizza sulle leggi elettorali sostenendo che di esse non si vive, ricordando che a lottare contro di esse si può anche morire. Il titolo racconta di uomo, e del suo riformismo, rimasti l’ultimo ostacolo alla presa dei pieni poteri di Benito Mussolini, come tale da eliminare a ogni costo.
Nencini, da senatore ex segretario del Partito socialista, ma anche da prolifico romanziere, ne fa un romanzo storico veritiero, mai romanzato. Che si discosta da scrittori del calibro di Renzo de Felice e Antonio Scurati su un dato essenziale: il Duce, per Nencini, sapeva. Lo dice la logica, lo avalla una moltitudine di indizi, lo supporta anche la rivalità politica antica. I due si conoscono sin dal congresso provinciale socialista di Rovigo del 1914. Rappresentano due mozioni contrapposte, vince la posizione intransigente di Mussolini (309 voti contro 198), al tempo direttore dell’Avanti!. «Matteotti capisce di avere di fronte un compagno con uno stile diverso, un linguaggio tagliente, provocatorio, un uomo senza scrupoli». Lo scontro si sposta poi nelle aule parlamentari durante l’ascesa al potere del fascismo. Nencini porta alla luce i rapporti che Matteotti mantenne con don Luigi Sturzo. Lo incontra nel febbraio 1922, alla caduta del governo Bonomi, e alla vigilia dell’insediamento del fragile governo Facta. «I due capiscono che forse è l’ultima occasione per salvare la democrazia. Ma la progressiva emarginazione di Sturzo fra i Popolari, fino all’esilio, contribuirà a rendere più solo Matteotti».
Dopo la marcia su Roma arriva la legge elettorale Acerbo a spianare la strada al fascismo, poi l’incarico a Mussolini, fino al celebre discorso del 30 maggio 1924, in cui Matteotti denuncia le violenze e i brogli elettorali. Agghiacciante il resoconto della seduta, i tumulti in un’aula in cui le milizie del fascio avevano già esautorato i commessi: l’arringa del deputato socialista viene sopraffatta più volte da grida, minacce e risse, fino a che il presidente, il giurista Alfredo Rocco, lo invita alla prudenza, suscitando l’indignazione di Matteotti. «Ma le parole del presidente – per Nencini – denotavano forse già la percezione che aveva della violenza che stava per scatenarsi».
L’11 giugno si preannunciava un discorso ancor più duro in cui Matteotti, che si era recato più volte all’estero ad approfondire alcuni dossier scottanti, avrebbe portato alla luce tanti buchi neri imbarazzanti del regime in ascesa: dal falso pareggio di bilancio allo scandalo delle tangenti petrolifere della Sinclair Oil, al caso delle bische clandestine. Ma il giorno prima, il 10 giugno, viene rapito sul lungotevere Arnaldo da Brescia ed “eliminato”. i particolari crudeli vengono ricostruiti nei dettagli come mai prima. Ma il focus resta la solitudine di Matteotti, per effetto della sottovalutazione dei rischi da parte dei Popolari (ormai orfani di Sturzo, ma non ancora guidati da De Gasperi) e della prevalenza, anche fra i socialisti, di una matrice bolscevica. Ma soprattutto Nencini punta l’indice sul ruolo svolto, o non svolto per niente, dal Pci. «Togliatti arrivò ad associare, fra i nemici del comunismo, Mussolini, Sturzo e Matteotti, considerato un “socialtraditore”. Un “pellegrino del nulla”, arrivò a definirlo Gramsci».
Lo sdegno per quel delitto portò il regime a vacillare, costringendo Mussolini a una poco credibile presa di distanza. Ma si vede che Matteotti, in vita, avrebbe potuto creare problemi anche più seri rispetto al contraccolpo internazionale originato dalla sua eliminazione. Al suo fianco restarono solo i socialisti riformisti, Filippo Turati, Claudio Treves, Giovanni Amendola. Reazioni durissime arrivarono da tutto il mondo, tranne che dall’Unione Sovietica: «Non capirono che il fascismo era un fenomeno destinato a durare. Lo considerarono, al pari del Pci, l’ultimo stadio del governo della borghesia in Italia, fallito il quale ben presto sarebbe toccato a loro».