La scrittrice. Alia Malek: «La Siria? Una volta era la casa di tutti»
La scrittrice Alia Malek è in questi giorni al Festival delle letterature migranti di Palermo
«A volte mi chiedono come mai noi mediorientali ci manteniamo giovani così a lungo – scherza Alia Malek –. Rispondo che sarà merito delle ingiustizie che subiamo, delle oppressioni che si susseguono. Quando si passa da un trauma all’altro, come in Siria accade da oltre un secolo, non si trova il tempo di invecchiare». Ospite in questi giorni del Festival delle Letterature Migranti di Palermo, Alia Malek ha ricostruito le vicende della propria famiglia in Il Paese che era la nostra casa (traduzione di Giovanni Zucca, Enrico Damiani Editore, pagine 448, euro 19,00), un libro che è anche una storia della Siria, di cui la scrittrice è originaria. «Sono nata negli Stati Uniti, dove i miei genitori erano emigrati, ho vissuto a lungo a Damasco, ho studiato in Italia, ho lavorato come avvocato dei diritti umani – riassume –. Per me questa identità complessa è un lusso, una ricchezza che mi permette di osservare con più partecipazione le vite degli altri». È quello che sta facendo con il lungo reportage che, da qui a qualche anno, diventerà il suo nuovo libro. «Nel 2015 ero in Grecia e a un certo punto mi sono ritrovata ad ascoltare le voci di un gruppo di giovani che parlavano tra loro in arabo, con accenti di diverse regioni siriane – racconta –. Scoprii che erano fuggiti dal Paese sullo stesso gommone e che da allora avevano deciso di viaggiare insieme».
Si è unita a loro?
Sì, in un certo senso. Ci rivediamo ogni anno, cerco di seguire il corso delle loro esistenze. Si sono stabiliti in Olanda, in Germania, in Svezia. Ciascuno di loro rappresenta un particolare punto di vista sulla Siria e, nello stesso tempo, sull’esperimento in cui è attualmente impegnata l’Europa.
A che cosa si riferisce?
Vede, per i siriani è stato particolarmente penoso adattarsi al ruolo dei rifugiati. Si tratta di un popolo che ha una lunga tradizione di accoglienza: prima gli armeni, poi i palestinesi, poi ancora i libanesi. Dagli inizi del Novecento in poi, chi perdeva la propria casa poteva sperare di ritrovarla in Siria. Non per iniziativa dei governanti, ma per la generosità delle persone comuni, le stesse che adesso sono costrette a scappare e non capiscono da dove venga l’ostilità dell’Europa nei loro confronti.
Lei che spiegazione si è data?
L’Europa soffre di un grave difetto di memoria, che contagia anche coloro che qui cercano rifugio. Tra i profughi circola l’ideale di un’Europa da sempre libera e prospera, come una Venere che sorge intatta dalle acque. Ma non è così. Poco più di settant’anni fa la Germania, alla quale i profughi siriani guardano con speranza e desiderio, usciva devastata dalla guerra che proprio il nazismo aveva scatenato. Meno di trent’anni fa, inoltre, gli stessi territori della ex Jugoslavia oggi attraversati dai rifugiati erano teatro di un conflitto sanguinoso. Le migrazioni non sono una novità per l’Europa, ma una parte del suo passato che, ancora una volta, si tende a dimenticare, magari per dare ascolto al populismo xenofobo.
Quale ruolo rivestono in questo gli Stati Uniti?
Dopo la Seconda guerra mondiale gli Usa si sono sì costituiti come superpotenza, senza però accettare il fatto di essere diventati un impero e di dover quindi assumere le responsabilità tipiche di un impero. Non vorrei essere fraintesa: non sono un’ammiratrice del colonialismo, ma Paesi come la Gran Bretagna e la Francia hanno conservato a lungo la consapevolezza di non potersi disinteressare delle nazioni su cui avevano esteso il proprio dominio. Gli Usa, al contrario, si sono nascosti dietro la cosiddetta teoria della modernizzazione: non governiamo il mondo, ci limitiamo a plasmarlo a nostra immagine. Esportando la democrazia, per esempio, oppure attraverso azioni di polizia globale che, in definitiva, accentuano il distacco dalle realtà in cui gli Stati Uniti si impegnano. Con la conseguenza che, se si vuole, ci si può disimpegnare da un momento all’altro, perché intanto quella non è la guerra degli Usa e quella crisi non li riguarda direttamente.
È la logica invocata dal presidente Trump per annunciare il ritiro delle truppe dalla Siria.
Esattamente. Una scelta che, per quanto mi riguarda, non trovo affatto sorprendente, specie se si considera la spregiudicatezza con cui già in passato gli Stati Uniti hanno affrontato la questione curda. Lo spettacolo al quale stiamo assistendo è il risultato di una politica del tutto priva di valori e votata unicamente all’opportunismo: una volta stabilito qual è il Paese di cui conviene diventare amici, si cominciano a combattere i suoi nemici o, almeno, gli si accorda via libera per farlo.
L’offensiva turca nel Nord della Siria è appena cominciata e già si parla di centomila sfollati, oltre che del rischio crescente per le minoranze.
Provengo da una famiglia cristiana e quindi conosco bene il ragionamento: è meglio che la situazione rimanga com’è, solo il regime di Assad può proteggerci. Ma non possiamo arrenderci a una logica di questo genere. In Siria, come in qualsiasi altro Paese, ciascuno deve sentirsi tutelato per il fatto di essere un cittadino, indipendentemente da ogni altro elemento.
E i rifugiati? Riusciranno a tornare a casa?
Più ascolto le storie dei ragazzi che ho conosciuto in Grecia, più mi sembra che si stia entrando in una fase inedita. Non si ambisce più alla stabilità di un luogo fisico, ma a una dimensione interiore. Nell’impossibilità di tornare a casa, o di trovarne una altrove, ci si dedica alla ricerca di sé stessi e, insieme, alla creazione di una comunità che non lasci più spazio all’odio, alla discriminazione, alla persecuzione. Sulle rotte dei rifugiati sta nascendo una nuova forma di identità personale. E questo, ne sono convinta, riguarda tutti.