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INTERVISTA. Alain Finkielkraut: la Shoah e la paralisi della memoria

Marie-Françoise Masson mercoledì 8 giugno 2011
Scrittore, filosofo e saggista francese, Alain Finkielkraut ha appena curato il volume L’interminable écriture de l’extermination («L’interminabile scrittura dello sterminio», Stock, 284 pagine, 19 euro). Per questo figlio di un deportato, non si tratta di dimenticare la Shoah, ma di evitare alcune derive possibili della memoria.Professor Finkielkraut, lei afferma che la memoria della Shoah ha trionfato sull’oblio, ma a quale condizione?«Ricordo un documentario di Bertrand Blier degli anni ’60, dal titolo sferzante: "Hitler. Non lo conosco". Specialmente in Germania, i giovani dimostravano indifferenza per quel momento apocalittico della storia europea. Quella minaccia in Europa si è dissolta. Hitler non è stato dimenticato. Tuttavia è come se conoscessimo solo lui, come se in Europa dovesse esserci memoria solo del crimine massimo. È rendergli troppo onore. Nel ricordarci solo del male assoluto, paradossalmente rischiamo di separarci dal passato e di crederci superiori a tutte le generazioni precedenti».Lei parla di memoria buona, quale sarebbe?«Una memoria pudica e che accetti di affrontare la complessità delle cose. Primo Levi, nell’ultimo libro I sommersi e i salvati, esprimeva la sua preoccupazione. Lui che andava nelle scuole vedeva all’opera non l’oblio, ostacolo insormontabile, ma il gusto del manicheismo. E s’interrogava sull’esito fallimentare della trasmissione della memoria, se alla fine fosse prevalso lo spirito di semplificazione. Nel libro Levi parla della zona grigia tra vittima e torturatore. Per esplorarla ci vuole molto tatto, però il compito della memoria non è quello di spogliarci del senso di ambiguità».Quando non ci saranno più sopravvissuti, si continuerà a parlare della Shoah?«Non siamo lasciati a noi stessi. Gli storici hanno fatto un lavoro straordinario che può alimentare la parola dei professori e abbiamo opere che danno accesso a quell’esperienza sia pure così remota: abbiamo Primo Levi per la Shoah, o ancora Jean Améry e Etty Hillesum. E per la Kolyma (il terribile gulag sovietico) – poiché bisogna pensare anche a quest’altra esperienza di campo di concentramento – abbiamo Shalamov, Solzenicyn e Margolin. La vera domanda è, semplicemente, quale posto continueremo a dare a queste opere in una scuola che subisce la concorrenza delle nuove tecnologie dell’immediato? In un mondo in cui ci si entusiasma per il film Bastardi senza gloria, trasformazione della memoria in videogioco, c’è motivo di inquietarsi».C’è chi dice che in futuro la memoria della Shoah lascerà l’Europa per Israele...«Non credo. Ma ho un altro timore: il divorzio tra memoria ebraica e memoria democratica. L’Europa si è fondata sul "mai più", mai più esclusione, discriminazione. Si è pronunciata per la necessità di una totale apertura e di una tolleranza radicale. Mai più, per gli ebrei, significa: mai più abbandoneremo il nostro destino ad altri. Dobbiamo esistere in quanto entità specifica. Da qui il rivoltarsi della memoria democratica contro quella ebraica, che viene accusata di alzare muri, mentre per essere fedeli alla Shoah bisogna cancellare progressivamente le frontiere. La memoria ci invita alla vigilanza. Solo che non è dar prova di vigilanza elevare la Shoah a paradigma politico. E farne una griglia di analisi di tutti gli avvenimenti. È ciò che avviene quando si affronti la questione del Medio Oriente per affermare che la vittima di ieri è il seviziatore di oggi. Ci sono altri modi per sostenere la causa palestinese. Purtroppo si cede facilmente a una mancanza di ritegno della memoria».Come avviene per i militanti di altre memorie, dal colonialismo allo schiavismo…«La Shoah è diventata l’unità di misura della sofferenza e oggi regna una concorrenza sfrenata tra le vittime. L’unica maniera di finirla è dire che il discendente di una vittima della Shoah non è una vittima. E neanche il discendente di uno schiavo o di un colonizzato. Mio padre è stato deportato, io non sono un deportato. La memoria deve rispettare la distanza che ci separa dai suppliziati. Non siamo qui per rivestirci degli orpelli di sofferenze che non abbiamo conosciuto. Ma per onorare quanti hanno sofferto, per comprendere ciò che è avvenuto».(per gentile concessione del quotidiano «La croix»; traduzione di Anna Maria Brogi)