L’hanno oltraggiato, deriso, imprigionato, ma lui è “Iron Mike”: fuori muscoli d’acciaio, dentro il cuore tenero e puro di un bambino. Un adolescente ormai, visto che domani per Mike Tyson suona il gong del mezzo secolo di vita. Un’esistenza sempre sotto i riflettori al centro del quadrato, fin dal suo debutto ufficiale avvenuto nel 1985. Lo sfidante era lo sfortunato Hector Mercedes, uno dei 42 ko che Tyson ha collezionato in una carriera di 50 durissimi match. Per nove volte chi ha incrociato i guantoni con “black mountain” si è ritrovato al tappeto dopo un solo round. C’è stato un tempo in cui tutti credevano che Tyson fosse invincibile e che la sua boxe selvaggia, crudele, potesse competere con quella elegante e pungente dell’eterno re dei massimi, Muhammad Ali. Una staffetta simbolica la loro, Ali aveva chiuso con la boxe nell’81 e appena un lustro dopo si apriva la nuova era di “Iron Mike”. Ma oltre alle differenze fisiche e i paragoni tecnici, tra Ali e Tyson il grande gap era tutto nella testa. Il vecchio campione Muhammad cresciuto alla scuola di pensiero di Malcom X aveva allenato continuamente il muscolo più importante, il cervello. Il nuovo che avanzava invece coperto da cascate di dollari, limousine e collane d’oro, appena conquistata la corona di campione del mondo dei massimi è andato al tappeto. Al grande successo mediatico e alle borse stracolme di denari portategli dal riccio impazzito Don King, Tyson ha reagito spegnendo la luce della mente, consumandosi in tutti i vizi e gli scandali possibili, beccandosi tutti i reati del codice penale per finire inevitabilmente dietro le sbarre. È stato il più forte, ma appena qualche settimana fa nel giorno dei funerali di Ali ha sibilato commosso: «Dio è venuto a prendersi il suo campione, lunga vita al più grande». Al bando i paragoni, a meno che il più forte non riconosca umilmente il più grande. Tyson uno dietro l’altro ha riconosciuto tutti i suoi errori e la luce, ancora fioca, è tornata a risplendere nella sua mente annebbiata, proprio nell’attimo in cui ha appeso i guantoni al chiodo. «Sono diventato vecchio troppo presto ed intelligente troppo tardi», disse scendendo dal ring dopo l’ultimo incontro con l’irlandese McBride. Era il 6 ottobre 2005. Da allora altri incontri sbagliati da ex fenomeno del ring che rimpiange come «il posto più bello del mondo. Lassù sai quello che ti può capitare». Fuori dal suo quadrato magico al riparo dalle insidie dell’universo solo notti insonni con l’incubo di un’adolescenza maledetta che non ha mai smesso di braccarlo. La sua è stata una giovinezza senza sorrisi in cui l’obiettivo era prendere a pugni il mondo e il pugilato l’unico rifugio possibile per un emarginato. Questa è la lezione che ha imparato e che adesso che è morto e risorto cento volte Tyson vuole dare a quella ventina di ragazzi che va scovando per i ghetti americani. Li guarda negli occhi quei giovani arrabbiati che hanno perso già prima di nascere, scruta nel profondo delle loro anime se c’è quella fame di riscatto che può farli accogliere nella sua squadra di pugilato, l’Iron Mike Production. È un po’ sport e un po’ circo, certo, ma del resto è ciò che vuole lo showbiz che ha sempre chiesto a Tyson di essere una star prima che un campione. Ora però il gioco è nelle sue grandi mani potenti e il futuro brilla negli occhi dolci di una tigre che non si è mai fatta ammaestrare. Mike è diventato finalmente uomo ed è consapevole che l’aver accettato le regole dello showbusiness «vuol dire che la gente pensa di avere diritto ad un pezzo della mia persona. E questo non finirà mai...». Ma di eterno c'è solo la sua nobile arte che gli permette di guardare con compassione al Mike di ieri, il pugile sfrenato che staccava l’orecchio di Holyfield. Sa che quello non è l’eroe che piace tanoto ai bambini che restano incollati davanti alla tv quando passa il cartoon
Mike Tyson Mysteries. Loro ridono e avvertono il brivido di qualcosa di molto simile, la purezza del bambino Mike che a cinquant’anni confessa: «Non sono nato pugile, altrimenti sarei nato perfetto».