Un padre sta morendo: «Cari figli, siccome non sopporto che di noi ebrei si dica che siamo sempre attaccati ai soldi, vi prego di mettere 1000 dollari ciascuno nella mia bara». I tre figli sono perplessi ma si adeguano: il primo mette 1000 dollari nel feretro, il secondo fa altrettanto. Il terzo invece fa un assegno da 3000 dollari, lo mette nella bara e prende il resto di 2000... Chissà se Daniel Vogelmann accetterà che questa barzelletta – che rischia di essere antisemita – sia pubblicata sul quotidiano cattolico... E poi proprio nei giorni in cui sono nell’aria gli echi di polemiche politiche partite proprio da certe dichiarazioni antiebraiche e da certe storielline inopportune. In ogni caso lui l’ha inserita tra
Le mie migliori barzellette ebraiche (pp. 66, euro 6), edite in un libretto della casa fiorentina Giuntina, di cui è editore editoriale. Vogelmann lo presenterà il 13 ottobre nel capoluogo toscano con Moni Ovadia e il giorno precedente sarà al Festival nazionale di Letteratura ebraica di Roma per un «dialogo sull’umorismo» con Bruno Gambarotta ed Enrico Vanzina. Ah, dimenticavo: Daniel Vogelmann è ebreo...
Fin dalla prefazione lei ammette che «le barzellette ebraiche dovrebbero essere raccontate solo dagli ebrei» perché altrimenti rischiano di diventare subito antisemite. Non è un bell’inizio...«Ma è così. E credo che si tratti di un dato storico sicuramente accentuatosi dopo la Shoah; prima circolavano libretti di barzellette decisamente antisemite – non so se compilati da ebrei, ma non credo –, però non sembrava una cosa tanto grave. Dopo la Shoah invece non è più permesso, perché ormai noi ebrei sappiamo che quell’irrisione e tutto il resto hanno portato allo sterminio. Pensi comunque che alcuni amici ebrei si sono irritati anche per il mio libretto».
Ma lei è d’accordo con questa sorta di «riserva ebraica» sull’umorismo?«Sì. Noi raccontiamo le storielle che ci riguardano con un certo spirito, siamo certi cioè di non avere secondi fini se non quello di sorridere su noi stessi e sdrammatizzare; ma gli altri che intenti avranno? Noi ovviamente ai pregiudizi sugli ebrei da barzelletta (avari, furbi, ipocriti, brutti...) non ci crediamo, invece il non ebreo potrebbe crederci davvero. Chi racconta le barzellette sui carabinieri in genere non li odia; però se lo fa un brigatista... ».
Quando e dove nasce l’umorismo ebraico?«Istintivamente mi verrebbe da dire nella Bibbia, ma poi bisognerebbe trovare le citazioni adatte».
Troviamole. A me sembra piuttosto che il Primo Testamento ci presenti un Dio terribile, severo, a volte persino vendicativo...«Ovviamente c’è anche quello. Ma nella Bibbia non manca il Dio che ride, e ci sono uomini che discutono con lui: il che è quasi una forma di umorismo per dei rigidi monoteisti come noi. Basta pensare ad Abramo che discute per salvare Sodoma e Gomorra cercando di "imbrogliare" Dio. Certo, la Bibbia è soprattutto drammatica. Però il popolo ebraico e i rabbini stessi cercavano di insegnarla sorridendo. Poi ovviamente il famoso umorismo yiddish è una cosa più recente, nata nelle comunità ebraiche dell’Europa dell’Est».
Il riso come antidoto all’esilio e alla sofferenza di sentirsi sempre «minoranza», si dice.«Una reazione alle persecuzioni, ai pregiudizi, insomma al destino ebraico. Un tentativo di sdrammatizzare: ridere per non piangere. O anche di far propri e superare gli stereotipi con cui si viene giudicati dal mondo esterno e che si sentono ingiusti».
La solita teoria che l’umorismo nasce dalla tragedia; e proprio per questo i cattolici ne avrebbero poco, in quanto possiedono troppe certezze... Un po’ banale, no?«Tuttavia c’è del vero. Chi crede alla resurrezione finale dovrebbe avere un tale ottimismo di fondo che l’ironia è impossibile, o inutile... Invece noi di dubbi sulla resurrezione dei corpi ne abbiamo molti, anzi nella Bibbia c’è scritto chiaro e tondo che torneremo in polvere. Dunque...».
Però credete nell’arrivo del Messia, quindi a un «lieto fine» della storia.«Kafka diceva che il Messia verrà comunque troppo tardi, alla fine dei giorni, e sarà inutile. Noi ebrei cominciamo a crederci poco, all’arrivo del Messia».
L’umorismo dipende dunque da come si vede Dio?«È probabile. Ma anche da come si vedono la morte, la vita, il mistero in generale. Per noi ebrei l’inconoscibilità stessa di Dio è uno stimolo a riderci sopra, rischiando anche un po’ la blasfemia: costituisce uno dei tanti modi per avvicinarsi al mistero ed esplorarlo nei suoi lati oscuri. Dunque in un certo senso ridere è un atto di fede. La cosa più pericolosa è l’ateismo: parlare di Dio, e riderne, è sempre meglio dell’indifferenza».
C’è nell’umorismo ebraico anche una sorta di autoironia di fronte alla propria superiorità di popolo «eletto»?«Se è per questo, ricordo una battuta: "Ti ringrazio, Signore, di averci fatto tuo popolo eletto. Però, per favore, per qualche migliaio di anni prenditi un altro popolo...». Storicamente infatti siamo "eletti" soprattutto al martirio. Però può essere: c’è chi ci considera con sarcasmo o invidia, e gli ebrei stanno al gioco autoironizzando».
E se gli ebrei amassero raccontare barzellette solo perché amano raccontare «tout court»?«Certo! Agli ebrei piace narrare storie e la barzelletta è in fondo una storia più breve. Lo sa che spesso le barzellette ebraiche ricordano quelle napoletane? Perché gli ebrei dell’Europa orientale non avevano il sole di certi quartieri partenopei, però lo spirito è il medesimo dei vicoli di Posillipo. Persino i due linguaggi, nella loro intraducibilità, sono simili».
L’ebraismo è una religione allegra?«"L’ebreo è fatto per la gioia e la gioia è fatta per l’ebreo", diceva Freud (sul quale d’altra parte circola la celebre battuta: "Gli altri ci hanno sempre fatto soffrire, ma noi ebrei ci siamo vendicati diffondendo la psicoanalisi...»). Le Capanne sono una festa allegrissima, la Pasqua non ne parliamo, come pure la festa delle Settimane... Poi esiste il versante serio, naturalmente: sulla Torah c’è poco da ridere, soprattutto ad osservarla. L’ebraismo è un universo dove ci sta tutto, ma senza dubbio pure l’allegria. Per non parlare poi dello chassidismo, dove la gioia è addirittura un principio fondante e la malinconia viene considerata un gravissimo peccato».
E l’umorismo delle altre religioni, come lo vede?«Sicuramente ci saranno barzellette anche nelle altre fedi. Però l’islamismo ride poco: non ce lo vedo Benladen a raccontare barzellette. Anche il cristianesimo è troppo serio. L’ebraismo costituisce un’eccezione, penso».
Tuttavia alcune barzellette ebraiche in realtà sono intercambiabili: si può mettervi a protagonista un genovese, uno scozzese o un carabiniere e il risultato è lo stesso.«Alcune sono adattabili, non c’è dubbio. Molte però puntano su pregiudizi specificamente anti-ebraici. Altre invece sono storielline classiche, per comprendere le quali occorre avere una certa conoscenza della cultura ebraica. Non bisogna dimenticare infine che i grandi scrittori yiddish hanno molto influenzato i comici americani: Woody Allen insegna. Dunque l’eredità del nostro umorismo è scesa in profondità nella cultura occidentale».