Idee. La rivincita della fragilità: abitarla significa assumere il volto di Cristo
"Il sacrificio di Noè" (1574), dipinto di Jacopo da Bassano
In un articolo folgorante uscito qualche anno fa sulla rivista “Etudes”, il teologo francese Paul Valadier fece un’«apologia della vulnerabilità». Una categoria che egli giudica più forte e autenticamente umana di altre oggi in voga nel linguaggio comune, come la resilienza. Per lui la vulnerabilità significa essere capaci di ricevere delle ferite, nel corpo e nell’anima. E di farvi fronte non solo e non tanto resistendovi, ma con l’atteggiamento dei poveri di spirito, quindi con gioia. Accettare di essere vulnerabili è proprium del cristianesimo e significa essere ben lontani dall’atarassia dello stoicismo o dall’imperturbabilità del buddhismo, perché vuol dire farsi carico della vulnerabilità dell’altro. In questo senso si va ben oltre le categorie della tecnoscienza e persino dell’etica.
Solo la fede in un Dio vulnerabile che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, perciò ancor più vulnerabile, può aiutarci a comprendere la condizione umana, superando la superba pseudo-autonomia dell’uomo moderno e postmoderno, ma anche l’immagine di un Dio altrettanto superbo, totalmente trascendente e lontano dall’uomo. D’altronde, è l’idea di un Dio che si fa compagno dell’uomo, che non è solitario e inaccessibile, che prevale nella teologia degli ultimi decenni. A formarla hanno contribuito pensatori di origine ebraica come Elie Wiesel e soprattutto Simone Weil ed Etty Hillesum. Essi lo chiamano in causa, lo interpellano, addirittura giungono a rielaborarne il volto parlando di «sofferenza di Dio»: mentre il male trionfa e dimostra il suo volto più terribile, Dio ha bisogno di aiuto. Scrive Etty nel suo famosissimo Diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio».
Alla fragilità di Dio è dedicato un libro appena uscito da Laterza di Brunetto Salvarani, Teologia per tempi incerti (Pagine 200, euro 17,00), che a partire da uno studio approfondito della Bibbia delinea un percorso che giunge a porsi le domande più scomode su cosa significhi essere credenti oggi, in un tempo che sempre più si caratterizza per la sua caducità e friabilità. «I cristiani – dice l’autore – si scoprono partecipi di una società contraddistinta da una cultura di base indebolita, da una veemente frammentazione e da crisi di identità sociale. Lo sbriciolamento di una razionalità sistemica è evidente». Si tratta perciò di «abitare la fragilità», di capire e amare questa condizione, dato che «solo chi riconosce il proprio limite può costruire relazioni fraterne e solidali, nella Chiesa e nella società», come scrive papa Francesco
Salvarani, giornalista e teologo, da sempre protagonista del dialogo interreligioso, direttore della rivista “Qol” e conduttore della trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, indaga il tema della fragilità attraverso alcuni personaggi biblici, da Giona a Noè, da Giacobbe a Giobbe, per arrivare a mettere a fuoco gli aspetti di debolezza, e perciò di umanità, di Gesù. Che soffre la stanchezza, che si fa catturare dal sonno come nella traversata notturna coi discepoli sul lago di Tiberiade, che ha sete come quando chiede da bere alla samaritana, che ha bisogno di starsene da solo, che prova collera verso chi sfrutta i sentimenti religiosi del popolo come i cambiavalute e i venditori di colombe nel tempio di Gerusalemme, e che si adira verso chi si dimostra ipocrita come i farisei. Si potrebbe dire, annota Salvarani, che l’unico sentimento assente nell’esistenza di Gesù sia l’indifferenza, la mancanza di interesse verso l’altro, i poveri in primo luogo.
Gesù se la prende spesso anche con gli apostoli ed è invaso dalla tristezza e dall’angoscia. È pieno di tenerezza verso le donne e i bambini, cioè coloro che non erano certo ai primi posti nella considerazione della società del tempo. Ha insomma ragione il teologo francese Joseph Moingt: «Il dogma dell’incarnazione è stato costruito proclamando che non bisogna arrossire delle humanitates, delle passività, delle sofferenze, delle infermità di Cristo, di tutto ciò che egli ha di simile a noi fin nelle nostre deficienze».
Per non parlare delle debolezze degli apostoli, che non si presentano certo come eroi né come intellettuali e non eccellono per speciali virtù o capacità, anzi spesso nelle pagine dei Vangeli risalta la propensione alla superbia e al tradimento. I primi testimoni di Gesù vengono mandati come pecore in mezzo ai lupi. «Qui probabilmente – dice ancora Salvarani – risiede il senso di quella scelta sorprendente e umanamente insensata: gente simile non poteva certo contare sulle proprie forze, ma solo su quella di Dio. Perché la precarietà e la pochezza degli apostoli si riflette in quella della Chiesa». Proprio come scrive san Paolo nella prima Lettera ai Corinti: «Fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio».
Mentre fra i saggisti del nostro tempo c’è chi rielabora in infiniti modi la sentenza nicciana sulla «morte di Dio» e chi prendendo spunto dai fatti di cronaca parla di «rivincita di Dio», il tema della debolezza e della fragilità di Dio si impone con maggiore chiarezza e plausibilità. Lo hanno fatto, come si diceva sopra, autorevoli pensatori ebraici (si aggiungano Jonas e Lévinas a quelli citati) ma anche cristiani, come ad esempio il teologo tedesco Jürgen Moltmann, il saggista Sergio Quinzio e la poetessa francese Sylvie Germain. O come, passando al versante ecclesiale, Albert Rouet, teologo e vescovo emerito di Poitiers nonché autore qualche anno fa del best seller La chance di un cristianesimo fragile, ove si può leggere questa frase illuminante: «Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».