Tecnologia e umano. La realtà virtuale? Non può fare a meno del corpo
Non ho idea di quanto sia diffusa la conoscenza dell’acronimo Dof, il termine che definisce alcuni standard della fisica possibile in ambito realtà virtuale, che si sperimenta nella sua versione più immersiva dotandosi di un visore, talvolta supportata dall’ausilio di apparati meccanici sensoriali che simulano fisicamente vibrazioni di montagne russe o turbolenze di viaggi aerei (e tanto altro), e contribuiscono a rafforzare la rappresentazione percettiva di spazi ed esperienze.
Dof sta per Degrees of freedom, gradi di libertà. Libertà di cosa? Sostanzialmente libertà di spostamento. A fronte di questo linguaggio che può apparire un po’ astruso, ma che si concretizza da tempo in giochi e tour virtuali utilizzati su ampia scala, l’armamentario linguistico e di immagini utilizzato per ragionare intorno al tema è rimasto piuttosto indietro, ancorato a categorie decisamente arcaiche che non reggono il confronto con i tempi.
Deve essere chiaro che anche la realtà virtuale più elaborata non ci porta mai fuori dal corpo o lontano dal corpo, per il semplice fatto che se la apprezziamo è grazie al corpo. Corpo è la sfera completa e unica della nostra potenzialità di esistenza, non una massa composita di sostanze il cui confine ultimo è ritagliato dalla epidermide o dai bulbi oculari. L’ologramma spaziale generato dalle stimolazioni visive e sensoriali della realtà virtuale risiede nel nostro cervello e nei nostri arti, non altrove.
Il concetto secondo cui la pratica della realtà virtuale alienerebbe il soggetto dalla propria esperienza fisica è fuorviante. Si basa su una concezione del corpo estremamente semplificata che lo vede unicamente come dispositivo meccanico articolato in grado di compiere movimenti che si interfacciano con il mondo reale. Sarei in contatto con il mio corpo solo muovendomi in questo binario gestuale, se do un calcio a un pallone, se salgo una scala, se tiro un piatto contro il muro. Nel mondo analogico (per intendersi) mi muovo effettivamente: se cammino su un sentiero di montagna i sassi posso sentirli e sperimentarli; se cado me ne accorgo e ne porto le conseguenze, il corpo verrà modificato macroscopicamente da quella esperienza così come il terreno in seguito al mio impatto. Tutto avviene in un modo diretto e direttamente constatabile. Con il visore invece tutto diventa talmente mediato da non rendere riconoscibile l’esperienza che vuole permettere di imitare. Con il visore non vado da nessuna parte che non sia io stesso.
La realtà virtuale con i suoi Dof ci mette di fronte a un ossimoro irrisolvibile. Da un lato non implica un cambiamento apprezzabile nella necessità e configurazione degli spazi. Io mi trovo con il mio visore in una stanza le cui dimensioni sono irrilevanti e lì rimango, anche se credo di volare sulle cascate del Niagara o di cimentarmi nel rafting estremo sulle rapide immaginarie di un canyon lunare. Dall’altro tutto questo è esperienza ed esperienza corporea.
Se uno osserva dall’esterno il ciclo motorio di chi indossa un visore assisterà a una serie di movimenti indecifrabili, buffi o assurdi perché non hanno nulla a che vedere con esperienze conosciute. L’esperienza è fisica, estremamente fisica, ma deve essere decodificata in modo del tutto peculiare. Non si dà alcuna alienazione dal corpo, ma la rilettura delle catene motorie che si genera in seguito alle stimolazioni della percezione. Quel mondo, le cascate del Niagara o i canyon lunari, non esiste nello stesso modo della realtà che ci è eterogenea. Quel mondo della percezione esiste, è concreto, ma è noi stessi.
Se la realtà virtuale può produrre un’alienazione, questa non è l’alienazione dal corpo: è l’alienazione dal mondo esterno, l’alienazione dall’alterità tout court, anche quella delle conseguenze fenomeniche del nostro agire. Anche quando il visore veicola una esperienza che richiede un movimento spazialmente apprezzabile, fatica e sudore, le cose non cambiano. Il blocco di esperienze che potremo sperimentare sarà sempre del tutt’altro rispetto a quelle che si vogliono imitare. Mi sorprende sempre quanto per ogni ellisse tecnologica si possa immaginare, questa ritorni sempre sul discrimine inalienabile di cui siamo fatti: il nostro corpo, condanna e salvezza, destino unico.