La storia. La racchetta di Ehrlich schiaccia sulla Memoria
Alojzy “Alex” Ehrlich (1914-2012), vicecampione del mondo di tennistavolo negli anni ’30 qui ritrattto durante una sfida di ping-pong La foto diventata la copertina del romanzo di Enrico Pedemonte
A quando un corso universitario di “Sport e storia del ’900”? Ci sono storie di atleti che, più di altre categorie (scrittori e storici compresi) hanno compiuto l’impresa, davvero olimpica: squarciare il velo nero dell’Olocausto per far luce sulla tragica pagina degli orrori compiuti dal nazifascismo. Giova sempre ricordare che tra i sei milioni di vittime del “totalitarismo nero”, c’è stato un vero e proprio “martirologio sportivo”: nei campi di concentramento nazifascisti morirono 60mila atleti, «di cui 220 di alto livello», sottolinea lo storico Sergio Giuntini, autore del saggio Sport e Shoah (sedizioni). In quella luttuosa sequela di nomi e di storie, di cui come ebbe a scrivere Primo Levi «vorrei ricordare i giorni in cui l’uomo è divenuto cosa agli occhi degli uomini», il destino ha voluto che non ci sia finito anche Alojzy “Alex” Ehrlich.
Il diario inedito diventa romanzo
La sua storia, quella del giovane favoloso del tennistavolo – nato il 1 gennaio 1914 da una famiglia ebrea polacca in un piccolo villaggio dei Carpazi, Komancza – l’ha rispolverata da sotto la patina dell’oblio Enrico Pedemonte. In un bellissimo e toccante romanzo, genere memoire, L’ultima partita (Rizzoli. Pagine 260. Euro 18,00) che non solo per il titolo rimanda all’altrettanto pregevole La partita dell’addio (– Mondadori – romanzo sul mito del calcio austriaco Matthias Sindelar scritta dall’ex calciatore Nello Governato), Pedemonte ricostruisce la storia di questo campione del tennistavolo, costretto, a trent’anni, a giocarsi la pelle in una sfida finale nel campo di sterminio di Auschwitz. Una narrazione lieve, tratta dal diario inedito dell’atleta, che lo aveva consegnato prima di morire (stroncato da un cancro allo stomaco nel 1992) all’amico e dirigente internazionale di tennistavolo Arnaldo Morino. «Quando Morino mi diede in lettura il memoire sono rimasto impressionato dalla sincerità, dalla forza dell’autocritica e la descrizione trasparente che Ehrlich aveva reso della sua vita », spiega Pedemonte che per il romanzo ha attinto da quel pozzo dei ricordi. Un amarcord doloroso che comincia il giorno in cui i poliziotti tedeschi della Gestapo bussarono alla porta di casa Ehrlich, a Bourbon. «Sono le tre del pomeriggio del 12 giugno 1944, il momento in cui la mia vita cambia per sempre». Non saprà mai chi è stato a tradirlo, forse una vicina di casa, «una ragazza polacca», ma i boia del nazismo sono andati a prenderlo armati fino ai denti, a colpo sicuro con un’accusa da indifendibile: far parte dei gruppi della Resistenza partigiana di Bourbon. La Francia era diventata la sua seconda patria dopo una giovinezza spensierata trascorsa a Leopoli (allora città polacca oggi passata all’Ucraina) di figlio cresciuto in una famiglia della ricca borghesia ebraica. Il padre vedeva nello sviluppo fisico del figlio Alex – un gigante di un metro e novanta dai bicipiti muscolosi – e la grande predisposizione per il tennistavolo, i segnali della futura realizzazione nella professione diplomatica. Ma il ragazzo, trascorreva tutti i pomeriggi in palestra a sottoporsi ad allenamenti estenuanti che lo portarono ben presto a farsi conoscere come il miglior talento polacco. Alex in testa aveva solo il tennistavolo.
Lo sport, il tennistavolo grande passione
«Ho scoperto che lo sport sarebbe stato la mia vita il giorno in cui ho preso una racchetta in mano», scrive. Anche davanti ai suoi carnefici che, nella caserma di Moulins lo sottopongono a torture feroci, Ehrlich si proclama estraneo alla guerra contro la Germania, lui “combatte” solo nei tornei come uomo di sport riconosciuto nel mondo. Il tennistavolo in quel momento godeva in Europa della stessa popolarità del tennis, basti pensare che nel 1933 agli Internazionali di Londra, nel tempio del football, Wembley, dinanzi a 12 mila spettatori il campione polacco si impose in finale contro il francese Haguenauer. Una sorta di “derby”, dato che Ehrlich risiedeva ormai a Lille ed era tesserato per il club locale. Giorni felici, carichi di speranze e di lettere d’amore scritte a mano per la sua Irene, la ragazza lasciata a Leopoli con la speranza di poter vivere un giorno insieme e di renderla sua sposa. Intanto il giovane Alex girava il mondo cercando di conquistare quel titolo iridato che gli sfuggì di mano per un soffio, e per ben tre volte. L’argento ottenuto ai Mondiali del 1936-’37 e nel ’39 lo marchiarono: per la stampa sportiva divenne «l’eterno secondo». Ma la sua classe e il suo gioco offensivo, a tratti irresistibile, ne facevano un fuoriclasse, comunque capace di vincere quattro Internazionali di Francia e altrettanti in Inghilterra. Una ventina di titoli e una serie di partite memorabili che, per sua fortuna, ricordava nitidamente il “carceriere gentile”. L’ambiguo Stefan, ricordato come «uno dei tanti misteri della mia vita». L’ufficiale che, aveva giocato anche lui a tennistavolo a Vienna, cinquant’anni dopo nel suo diario dei dolori viene descritto come «un uomo dall’intelligenza acuta e di un’interiorità lacerata, lo sguardo di una persona sconfitta». Ma nella prigione di Moulins in quei giorni da “sommerso” senza via di scampo, lo sconfitto era solo lui: il campione dalle cento vittorie epiche, il recordman privato della libertà come della sua racchetta da ping-pong. «Quello è stato il record più clamoroso della mia vita... Ringraziare con le lacrime agli occhi le SS che mi ha spedito in un lager». Stefan, di cui non ricorderà mai il cognome, per giorni usò quegli incontri privati e gli aneddoti sportivi di Ehrlich come «una pausa dalle storie di violenza e di morte in cui è immerso». L’ufficiale delle SS conosceva bene il campione del mondo Richard Bergmann che il 30 marzo del 1937 segnò il giorno sportivo più nefasto per il suo prigioniero. «La sconfitta con Bergmann mi brucia ancora sulla pelle... Io mi sentivo imbattibile. Fino ad allora il tennistavolo era stato dominato da Barna, e ora era arrivato quel ragazzo di 18 anni – contro i suoi 23 – che era ormai il nuovo numero uno. Mi ero lasciato sfuggire l’attimo fuggente», ricordava amaro Alex. Ma se il ranking lo aveva scalzato dal trono, due anni dopo quella sconfitta cocente aveva trovato gloria e denaro nella chiamata di re Farouk per allenare la nazionale di tennistavolo d’Egitto. Compito assolto come sempre da campionissimo di quella disciplina che gli aveva risparmiato umiliazioni e pene ulteriori rispetto al resto dei suoi compagni deportati, ma non gli evitò di finire nell’inferno di Auschwitz.
Scampato all'inferno del lager, libero, ma senza più Irene: l'unico grande amore
Anche lì, i suoi meriti sportivi pesarono e l’assegnazione alla squadra dei sminatori di bombe lo portava fuori dal campo. In quell’ossario a cielo aperto trovò un barlume di fiducia nel futuro negli occhi della sua Irene. L’amante ritrovata e posseduta in una scena straziante quanto magistrale nella descrizione di Pedemonte: l’incontro di due corpi derelitti, baci caldi e rubati a due bocche rimaste senza denti. Il 27 gennaio del 1945, Alex e Irene erano finalmente due “salvati”. Due cuori liberi di far ritorno insieme alla loro nuova vita. Ma Irene non sopravvisse alla “marcia della morte” e spirò tra le braccia dell’amato che non l’avrebbe mai dimenticata. Rimase il suo unico grande amore (Alex non si è mai sposato). Ehrlich tornò a giocare e a vincere, ma per la nazionale francese, la Polonia gli aveva tolto la cittadinanza in quanto «sgradito al governo comunista ». E prima dell’ultima schiacciata a rete della sua esistenza, decise che era giunto anche il momento di ricordare. Scrivere per salvare almeno la Memoria, come aveva fatto Primo Levi che neI sommersi e i salvati ci ricorda che scandagliare quell’«abisso di malvagità» sarebbe servito un giorno a comprendere che «ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere di nuovo tentato domani, potrà coinvolgere noi o i nostri figli». E questo noi, come Ehrlich, vogliamo che non accada, mai più.