Riscoperte. La poetica degli affetti di Nella Marchesini
Nella Marchesini, «Donne assise con bambino» (1925)
Tre anni dopo la morte prematura di Nella Marchesini, nel 1956 Felice Casorati – che le fu maestro – disse che sarebbe stato un’assurdità cercare il posto che Nella occupava «nel “giro” materiale dell’arte di oggi, di ieri e neppure di domani» perché lei rappresentava l’«eccezione». Era nata in Toscana, a Marina di Massa, nel 1901, e venne a Torino al seguito della famiglia che aveva circa sedici anni. Aveva già studiato pianoforte e disegno. Entrò subito nel giro gobettiano, e questo la mise a contatto con alcuni dei migliori intellettuali torinesi, basti ricordare Carlo Levi, Federico Chabod e Natalino Sapegno.
Nella aveva due sorelle, Maria e Ada, e tutt’e tre frequentano quel milieu intellettuale e artistico che, come è stato scritto, aspirava alla “rivoluzione delle piccole cose”, fil rouge della cultura e della pittura torinese fra le due guerre. E in quell’ambiente troviamo anche alcune donne: oltre a Nella Marchesini c’erano Daphne Maugham (della quale ci ha dato un ritratto pittorico intenso), Jessie Boswell (inglese trapiantata a Torino, unica donna nel gruppo dei Sei promosso dal critico Edoardo Persico) e Marisa Luisa Lurini, nota come Marisa Mori dal cognome del marito, anche lei toscana, arrivata da Firenze a Torino diciottenne. Negli anni Venti la città fu davvero un crogiuolo di idee e di autori cui il nome della rivista fondata da Piero Gobetti, “Energie nove”, calza perfetto.
Ora Torino punta il riflettore sull’opera di Nella Marchesini presentando fino al 29 settembre alla Galleria civica d’arte moderna, nello spazio Wunderkammer, una piccola retrospettiva con ventisei quadri, alcuni materiali di documentazione e qualche disegno di studio che fanno capire quanto senso della composizione e dell’invenzione avesse questa pittrice. Fu lo stesso Gobetti il tramite con Casorati, e le affinità elettive con l’uomo «colto e autorevole» – come scrive Alessandro Botta (che con Giorgina Bertolino ha curato il catalogo generale dell’artista e, ora, questa mostra con catalogo Silvana) –, portarono a un immediato ingresso della Marchesini nello studio del maestro, che farà di lei l’allieva prediletta e poi l’assistente, ma anche la modella di alcuni quadri, per esempio il ritratto di Silvana Cenni. Casorati, qualche anno dopo e fino al 1930, decise di affidarle anche la direzione amministrativa e organizzativa della sua scuola (tra gli allievi anche Lalla Romano) che dal 1927 traslocò in via Galliari.
Il 1930 segna però anche l’inizio del distacco della pittrice dalle ricerche del maestro: la sua pittura, ispirata ai modelli del Rinascimento ma con una pulizia formale che riflette la forma solida e le atmosfere sospese casoratiane, si sfarina in un colore più materico e capace di esprimere il fremito della luce, la vita insomma, in costruzioni spaziali che risentono poi anche della scomposizione cezanniana ma non solo, perché la pittrice sembra risalire la corrente fino alle proprie origini toscane e alla lontana, più primitiva e terragna, arte etrusca. Giotto, Piero e Masaccio erano tra i suoi pittori prediletti ma, come ricorda ancora Botta, il suo museo immaginario era costituito dalla collezione di circa quattrocento cartoline che aveva acquistato nei luoghi d’arte o le erano state spedite da amici.
Il gusto dei primitivi di Lionello Venturì uscì nel 1926 e fu certamente tra i saggi che la Marchesini meditò, se non altro perché nel clima del “ritorno all’ordine”, riflettere sulla lezione dei trecenteschi e quattrocenteschi era – come disse Ernst Gombrich – dare voce alla «nostalgia per la propria infanzia e per la propria giovinezza che si fonde facilmente nella mente dell’uomo con il desiderio di ritrovare un’epoca passata o terre lontane: più primitive eppure più spensierate, più innocenti della nostra condizione presente». E quella nostalgia che lega la “poetica degli affetti” della Marchesini, proiettata sui rapporti intimi e familiari, all’arte del passato, permea un quadro della collezione Gobetti, Donna assorta nella lettura (non esposto), dove un profilo femminile dipinto dal Pollaiolo e stampato sulla cartolina appoggiata sopra il tavolo, forse come accade pure oggi a mo’ di segnalibro, diventa il testimone di un pensiero artistico. Si avverte, anche nel periodo casoratiano, uno sguardo meno assorto di quello del maestro, più rivolto a una interiorità che, dal versante femminile, si rende più corporea, più sentita dall’interno, e il quadro del 1925 Donne assise con bambino richiama pensieri figurativi che, considerato il tema della madre che ha appena allattato, evoca certe immagini sui deschi da parto quattrocenteschi, o, vicino a noi, ma senza alcun sospetto di sadismo formale, richiama lo stile plastico e arcigno di Cagnaccio di San Pietro.
I riferimenti, però, si sommano e in Due nudi nello studio del 1932 si può avvertire un influsso sironiano, così come la grande pittura europea moderna traspare nei primi anni Quaranta in varie scene di bambini sulle rocce del fiume Chiusella o raccolti attorno a un tavolo. Straordinario per le raffinate variazioni di toni di marrone e per l’architettura delle forme, Bimbi e figura in un interno del 1942. Nella Marchesini non fu affatto un nome marginale fra le due guerre: nel 1931 partecipò alla Prima Quadriennale romana ed espone assieme a Campigli, De Pisis, Magnelli, Severini, Tozzi; nel 1932 alla Biennale di Venezia con tre opere; nel 1935 ancora alla Seconda Quadriennale romana.
Negli stessi anni, fino al 1937, metterà al mondo tre figli (Laura, Renzo e Ada) e i suoi impegni espositivi si diradano; poi la guerra, che la vede sfollare in Valchiusella, anni duranti i quali illustrerà Le Laudi di Iacopone e l’Aminta del Tasso. Visitando nel 1948 la prima Biennale di Venezia del Dopoguerra, si trova a riflettere su Picasso e Matisse (del primo resta un riflesso in un capolavoro del 1952, Tre donne; il secondo ritorna, anche qui più come omaggio, nel Nudo sulla trapunta rossa del 1951 – non esposto). Il sentimento delle piccole cose è una forma di pudore; la pittrice lo rivela in vari autoritratti, espliciti o dissimulati, segnati da sofferta interiorità; un sentimento che spesso accompagna nelle donne la coscienza materna; in alcune figure femminili della Marchesini lo si vede nel gesto della mano che cade lungo il corpo, sfiorando il grembo, per posarsi sulla coscia, oppure nel classico gesto della mano che sorregge la testa pensosa. Volti assorti, come in certe Madonne senesi del Trecento, esprimono il pudore di una prescienza del destino. Di questo ci parla, con grandissima forza e bellezza, l’autoritratto in controluce sullo sfondo del paesaggio di Drusacco (1943), dove la pittrice viveva da sfollata. Un sentimento poetico che diventa diafana autocoscienza.