Il buio e il miele solare. Questa è Rio. La cornice è incantevole, il paesaggio, giova sempre ricordarlo a chi non è mai volato fin quaggiù sotto il Corcovado, oscilla contraddittoriamente, come in poche altre parti del globo, tra l’infernale e il paradisiaco. L’uomo carioca va piano, spesso tende a lavorare con estrema lentezza, ma guarda forse più lontano rispetto al vecchio fratello europeo. Perciò Rio 2016 si presenta perfetta nella sua imperfezione. Da qualunque zona si parta di questa città – popolata ufficialmente da oltre dodici milioni di abitanti, dei quali due milioni e mezzo risiedono in favela –, l’arrivo nell’imponente area del Parco olimpico è una piccola impresa “sportiva”. L’ora di punta del traffico metropolitano a Rio non conosce soste, nemmeno di notte. E nell’area olimpica di Barra da Tijuca dove si concentra il 50% degli impianti (15 su 28) la situazione non è mai semplice. «Vede queste rotatorie? Questi pontili non fanno che rallentare la viabilità. È un problema per noi che viviamo e lavoriamo in macchina», denuncia Paulo, il tassista che alla Barra ci lascia davanti alle tre strutture denominate Arena Carioca. Basket (nella 1), lotta e judo (nella 2), taekwondo e scherma (nella 3) sono al sicuro ora e lo saranno anche dopo la fine dei Giochi. La bandiera che sventola nel cuore e nella mente del comitato organizzatore ha stampata la parola «
Legacy »: l’“eredità” deve essere la rigenerazione del luogo, da lasciare alla città di Rio. Qui sorgeranno scuole federali e centri sportivi studenteschi. Il materiale di riciclo della Future Arena (vi si disputa il torneo di pallamano) servirà a mettere in piedi edifici scolastici per combattere l’analfabetismo dilagante che in Brasile raggiunge il 17% e l’abbandono scolastico è intorno al 20% (la maggioranza peraltro è femminile). Non c’è ancora un progetto per il Centro aquático Maria Lenk, la casa di nuoto, pallanuoto e tuffi dedicato alla nuotatrice brasiliana che morì nel 2007 prima dell’apertura dei Giochi panamericani. Una prima “
legacy” in questo polo della Barra è stata proprio quella della rassegna continentale, mentre ciò che è venuto su
ex novo spesso manca di rifiniture essenziali, per le quali gli operai stanno lavorando alacremente giorno e notte pur di consegnare in tempo l’impianto completato. È il caso del Velódromo municipal, dove per domani è fissato il via delle gare ciclistiche su pista, ma c’è qualche squadra di corridori che vedendo il raccapricciante stato dell’arte stava per andarsene in fuga e tornare a casa. Al velodromo si entra da un pertugio: le maestranze non vogliono far vedere i piccoli orrori, tralicci scoperti, parquet da sistemare, spogliatoi e illuminazione tutta da testare. Un tecnico con il caschetto giallo in testa vorrebbe strapparsi i capelli, c’è da fare tutto in una notte. Riso amaro, ma il miele lo trovi per fortuna ai Pavillon di Riocentro (sono sei), scintillanti e anche assai spaziosi: per il badminton e il tennis tavolo ci sono ventitremila metri quadri a disposizione, contro gli appena 7.500 destinati al pugilato. Spostandoci dalla Barra e procedendo verso le spiagge incantate ci si rende conto che siamo nella più grande palestra a cielo aperto del mondo. Quale altra sede olimpica può sfruttare i 38 chilometri di litorale che vanta Rio? Sulla sabbia morbida di Copacabana si gioca ininterrottamente: i tornei di calcetto e di beach volley degli impiegati o dei camerieri che staccano dal turno di notte proseguiranno in concomitanza dealle finali di ciclismo su strada, canoa e canottaggio. E qui ricala il buio pesto per canottieri e velisti (circa 1.400 atleti) impegnati nella zona off limit di Marina da Glória e Lagoa. Nella baia di Guanabara non si segnalano più carcasse di animali e immondizia pesante, ma nonostante i tre miliardi di dollari investiti negli ultimi vent’anni in questi specchi d’acqua l’allarme inquinamento resta altissimo. Il sole torna a splendere su Copacabana dall’alto delle tribune del Beach Volleyball Arena, di cui va fiero il pallavolista Anderson (trascorsi in Italia a Piacenza, Cuneo e Taranto): «È uno stadio magnifico da dodicimila posti, con il quale forse può reggere il confronto solo l’arena del beach di Sydney 2000». Questa è Copacabana signori, un fascino unico quanto quello dell’antico catino del
futebol bailado, il Maracanã, dove Neymar e compagni sperano di arrivare a giocarsi la finale. Ma del favoloso impianto che ai Mondiali del 1950, con la tragica sconfitta contro l’Uruguay, arrivò a contenere fino a duecentomila spettatori, la capienza già dai Mondiali del 2014 è stata ridotta a settantaseimila. E del mito rimangono soltanto i muri di cinta con i loro
murales. Il Maracanã è uno stadio moderno e funzionale, identico alla maggior parte di quelli costruiti o ristrutturati in Europa. E anche l’Engenhão, lo stadio dell’atletica, e il Maracanãzinho, che ospita la pallavolo, riflettono questa tendenza verso i progetti costosi ma seriali delle archistar.L’anima carioca – quella del carnevale – vive anche per le Olimpiadi, condividendo il gusto per la tradizione: al posto dei carri vedrà sfilare la maratona. Rio dice di aver studiato il “modello Londra”, ma oltre a piazzare cinque impianti fuori dal centro della città non è stata in grado di portare a termine quel processo di bonifica urbana e anche la riqualificazione residenziale di ampie aree è rimasta solo sulla carta. Fa eccezione il polo a rischio di Deodoro, al quale hanno portato una ventata di aria fresca e una massa d’acqua da 25 milioni di litri – tanti ne contiene il futuristico Canoagem dove si assegnano le medaglie per la canoa slalom. A Deodoro la
legacy sarà anche il più grande maneggio metropolitano e un’area ciclistica (bmx e cross) di quasi quattromila metri quadrati. Nella samba degli investimenti per le strutture olimpiche, a Rio ballano due miliardi di euro. Però tra le pagine scure e quelle meno chiare di questi Giochi qualcosa resterà; ciò che è ancora al buio magari troverà una luce permanente o viceversa. Del resto, come sostiene la grande anima carioca Paulo Coelho, «se camminassimo soltanto nelle giornate di sole non raggiungeremmo mai la nostra destinazione».