Scenari. Paura, la grande protagonista della storia umana
Un particolare della tomba Moreau-Vauthier al Père-Lachaise di Parigi
Invecchiare, e invecchiare pensando, invecchiare studiando, è una bella fortuna: o, se preferite, una vera grazia di Dio. Adriano Prosperi è del ’39: posso parlarne liberamente perché io, del ’40, sono suo coetaneo oltre che suo corregionale. Alla nostra età, anche quando si è riusciti – con o senza nostro merito – ad evitare altre possibili paure (la guerra, le malattie gravi, la povertà, la solitudine ch’è forse la peggiore), ci resta comunque da affrontare la Grande Compagna del Genere Umano. Tutti noi sappiamo che potremo morire: ma i vecchi sanno che debbono farlo, che non possono vivere troppo a lungo fingendo che quel debito da pagare non esista. In cambio, hanno avuto tempo per prepararsi: e sono in tanti ad averlo messo sul serio a frutto. I momenti di debolezza, certo, non mancano. Eppure questo è un grande dono. La paura della morte è umana: perché aver paura è umano. D’altronde il coraggio non è per nulla l’opposto della paura: è solo l’altra faccia della medaglia. Non aver paura sarebbe inumano e disumano. Farsi coraggio significa imparare a salire in sella, a controllare e infine a domare quel cavallo selvaggio e terribile; magari perfino a farselo amico. Com’è stato saggiamente detto, non bisogna aver paura di avere coraggio. Ai bei libri, quelli che insegnano ma che soprattutto fanno pensare, Prosperi ci ha abituato. Ma questo suo succinto, serrato Tremare è umano. Una breve storia della paura (Solferino, pagine 138, euro 9,90) – debbo ammetterlo – mi ha sorpreso e quasi commosso. Come tutti i libri inevitabilmente sono (perfino i trattati di cibernetica), in fondo è un libro autobiografico: per i motivi che accennavo poco sopra. E un libro d’occasione: per chi è abituato a scrivere e a meditare, un’epidemia – come una malattia o una guerra – costituisce sempre, piaccia o no e sia più o meno scomodo, un’esperienza preziosa, un’eccellente occasione per comprendere cose che, senza la dovuta esperienza diretta, ci sarebbero forse rimaste incomprensibili o quanto meno più oscure e ingarbugliate. Con grande erudizione a ancor più grande sensibilità, Adriano Prosperi parte “con i piedi in terra”, dal presente e dalla paura del contagio da Covid, per accompagnarci nel labirinto delle paure individuali e collettive. La paura è una muraglia impenetrabile vista da lontano: man mano che ci avviciniamo, però, comincia gradualmente a mostrarci crepe e sbrecciature, magari varchi e perfino postierle. Gli esempi sono molti, desunti anche dalla storia dell’arte: basti pensare all’iconografia del Male, del Peccato, della Morte, di tutte quelle complesse immagini culturali (e talora cultuali) attraverso le quali impariamo in realtà a comprendere e in un certo senso ad “addomesticare” quell’autentico mistero che non è tanto la morte stessa quanto, piuttosto, la vita. E arriviamo quindi all’essenziale, al succo e all’osso di tutto. Che cosa temiamo davvero ora che ci sentiamo giunti sul ciglio della Modernità, al limite quasi e- stremo della globalizzazione, al margine avvertito – o temuto – come invalicabile di quel mondo, di quell’ambiente, di quella natura (vogliamo chiamarlo Creato?) che per generazioni intere ci siamo illusi di poter conoscere e dominare illimitatamente mentre oggi è tornato in modo quasi inaspettato a farci paura, a rivelarsi indomito e magari invincibile? Che fare dinanzi al clima che s’impenna, ai ghiacci che si fondono, al livello del mare che s’innalza, all’aridità che avanza e che si alterna ai cataclismi? Come agire, noialtri happy few occidentali, dinanzi alle nuove malattie create dal nostro progresso, alle nuove povertà partorite dal nostro processo di accumulo di beni che ha per secoli interi trascurato la ridistribuzione e – diciamolo – la giustizia? Come replicare a una storia che con impietoso disincanto ci mostra che noi ci siamo raccontati per secoli la fiaba di noi stessi come santi e navigatori, come inventori e scopritori, come benefattori e redentori del genere umano, mentre in realtà ne siamo stati (non solo, non sempre: ma anche) i predatori e i carnefici? Ora, il veleno è versato. La paura ci abita e c’invade. Occorre pensare all’antidoto: che, come ci ha insegnato Max Weber, consiste soprattutto nella grande arte del disincanto. Per impedire che sull’orizzonte della disparità socioeconomica, dell’immiserimento culturale, della distruzione ambientale s’impianti il flagello preconizzato dai cavalieri dell’Apocalisse. Tale antidoto è l’insieme delle nostre energie spirituali e culturali accumulate nei secoli e accompagnate dalla scoperta finale, totalizzante, della vera chiave di volta di tutto, quella indicata dal Papa: la solidarietà umana, la soluzione dei nostri problemi attraverso quella dei problemi dell’umanità intera. Prosperi ci ripete con Orazio che per sfuggire all’angoscia della fine individuale è necessario ripeterci che non omnis moriar finché l’Io di ciascuno di noi saprà riflettersi in quello di tutti gli altri. La pandemia ci ha obbligati a una nuova consapevolezza. Non siamo i padroni dell’universo: eppure, la pandemia ha reso «ciascuno dei viventi un cittadino del mondo», al di là delle barriere delle lingue, delle culture, delle condizioni economiche, dei confini, «creando un sentimento di vicinanza umana che solo l’uscita finale dalla crisi potrà oscurare». «Siamo la prima generazione umana – dice Prosperi – che abbia fatto tutta insieme un’esperienza collettiva del paradigma di Hobbes: la paura della morte come causa della soggezione a un moderno Leviatano. Ciò che è stato imposto dalla minaccia di morte, presenza impalpabile e invisibile veicolata dall’ambiente e da tutto quello che vi si muove, è diventato rapidamente un’abitudine, un istinto… La paura ha cancellato la fiducia, trasformando il rapporto con l’altro in una minaccia da evitare. È vero in generale che nessun uomo è un isola, ma per questo periodo – della pandemia – tutti siamo diventati tante isole. Per approdare all’altra isola si è dovuto studiare come farlo, quali segnali mandare, quali garanzie esibire che non portavamo pericoli. Per riconquistare condizioni normali di esistenza sarà necessaria una lunga risalita». Ma come affrontare tale «lunga risalita »? Con quali mezzi, con quali strumenti, evitando quali pericoli? E come riuscir a fare in modo che nessuno tenti scorciatoie, o risalite alternative, o sentieri privilegiati percorribili solo da alcuni? Questo il vero punto, il vero problema. Non solo vincere la paura, ma evitare che ci sia chi cerchi di farsene un’alleata.