Agorà

SIDDHARTHA DEB. La nuova India fra Web e slum

Daniela Pizzagalli giovedì 4 ottobre 2012
​Il titolo del saggio di Siddhartha Deb sulla nuova India, Belli e Dannati (Neri Pozza, pagine 346, euro 18,00), ricalca quello del celebre romanzo di Francis Scott Fitzgerald, ma con una sostanziale differenza: i due aggettivi si assommano, nel romanzo americano, descrivendo due caratteristiche delle stesse persone, mentre nel testo indiano si opera di una rigida divisione, dove i belli, quelli che rappresentano la cosiddetta India "shining", sono una minoranza rispetto al settanta per cento e oltre della popolazione, condannata a vivere con meno di 20 rupie al giorno.Sfuggito al destino di diventare il tipico ingegnere indiano in mobilità che s’inserisce docilmente negli uffici-cubicoli di ogni parte del mondo, il romanziere quarantenne ha voluto delineare, in questa sua prima opera di nonfiction, il ritratto in chiaroscuro della nuova India, con una tecnica che si avvicina alla narrativa, raccontando anche con ironia i personaggi che ha intervistato in tutto il subcontinente, scegliendo esempi rappresentativi non solo tra " i belli", ma soprattutto tra "i dannati".Siddhartha Deb, in Italia per il Festival di «Internazionale» a Ferrara dove sabato prossimo, oltre a presentare il suo libro, parteciperà alla tavola rotonda: "Ritratto in bianco e nero. Le contraddizioni della crescita economica indiana", ci dice di aver voluto delineare soprattutto i contrasti dell’India di oggi: «Il frenetico attivismo dei call center è  rappresentativo come l’immobilismo dei villaggi rurali, così come la visibilità dei miliardari e l’invisibilità degli operai, il lavoro altamente tecnologico e il massacrante lavoro manuale, anche infantile».La globalizzazione è stata determinante per il decollo economico della nuova India, ma nella situazione attuale di crisi può costituire invece uno svantaggio?«Senz’altro, perché la globalizzazione non si fa carico dei problemi dell’ambiente. La nuova economia spinge per una forzata urbanizzazione, ma non tiene conto che 400 milioni di indiani, circa un quattordicesimo della popolazione mondiale, vive di agricoltura. Inoltre l’approccio del governo nei confronti dell’agricoltura è indirizzato dalle multinazionali verso monoculture e sementi geneticamente modificate, mentre abbiamo bisogno di piccole comunità agricole basate su un modello ecologico e sostenibile».Eppure lei parla del "computer di Gandhi" e della possibilità che le nuove tecnologie possano far superare la disuguaglianza sociale...«Si trattava di un progetto, poi abbandonato, per diffondere l’istruzione via Internet, ma in realtà ogni innovazione tecnologica potrà essere utilizzata soltanto dopo che il governo avrà approvato il cosiddetto "diritto al cibo". Se il 40% per cento dei bambini sotto i cinque anni soffre di denutrizione, anche i programmi per l’alfabetizzazione non hanno senso. Le ricchezze della nuova India sono utilizzate per costruire sempre più centri commerciali e parchi di divertimenti, non per realizzare progetti a favore della qualità della vita». Parlando delle nuove modalità della comunicazione, lei afferma che l’induismo cerca di definire "le linee di demarcazione di una fede moderna". Può essere un fenomeno indotto dal confronto con i grandi monoteismi?«In un certo senso sì, se pensiamo che è un’esigenza di semplificazione iniziata durante il periodo coloniale, e che continua ancora oggi. Il fatto è che i nostri testi sacri tradizionali sono molto stratificati e complessi, ed è difficile trarne regole etiche chiare e accessibili. Questo ha comportato nel tempo una perdita di identità religiosa che per reazione tende a rafforzarsi con l’integralismo. Il revanscismo indù ha origine dalle classi alte e reazionarie che, soprattutto a partire dagli anni ’90, hanno abbracciato simultaneamente il liberismo economico e un agguerrito sciovinismo nazionalista. Nel Bhagavadgita, che è un episodio del Mahabharata, queste élites hanno trovato antiche giustificazioni culturali per un induismo militante e aggressivo che può sfociare nella violenza, specialmente nei confronti delle minoranze e dei poveri».I frequenti conflitti religiosi, sia tra indù e musulmani che contro i cristiani, possono derivare da questo atteggiamento?«Certamente, perché nascono dalla paura, dal sentirsi deboli e per questo indotti all’aggressività per mostrarsi forti. Ma penso che derivi soprattutto dalla forzata urbanizzazione. Nei villaggi rurali è molto più diffusa la tolleranza, l’empatia verso le diversità, e non solo tra le religioni, ma tra le etnie, i colori della pelle, le tradizioni gastronomiche, le lingue, che in India sono moltissime».