Agorà

Roma. Guido Reni e la sacralità del paesaggio

Marco Bussagli venerdì 11 marzo 2022

Guido Reni, “Danza campestre”, 1601-02 (Roma, Galleria Borghese)

Tutto è nato per via di una mosca; ma non una mosca vera, una mosca dipinta! Quella che sembra essersi appena posata sul cielo blu che Guido Reni ha disteso al di sopra della sua Danza campestre, l’ultimo quadro acquistato nel 2020 dalla Galleria Borghese a Roma. Il fatto è singolare perché, in realtà, l’opera, da datarsi verso il 1605, fu una delle prime 'compere' del cardinal Scipione e, quindi, fra i primi pregevoli pezzi ad essere entrato nella costituenda raccolta. Oggi invece, dopo esser stato venduto nell’Ottocento e considerato disperso, è l’ultimo a rientrarvi dopo la sua comparsa nel 2008 sul mercato antiquario londinese.

L’opera, la cui presenza nella collezione e la cui autografia sono confermate dagli antichi inventari, va considerata una delle prime testimonianze romane del grande pittore bolognese il quale giunse nella città papale come collaboratore di Annibale Carracci impegnato nella celebre impresa della Galleria Farnese. Il quadro, però, assume anche un altro valore perché apre nuove prospettive sull’artista, generalmente considerato restio a trattare il tema del paesaggio. Per tutti questi motivi, è stata allestita la mostra su “Guido Reni a Roma. Il sacro e la natura” (fino al 22 maggio), a cura di Francesca Cappelletti che da poco ha preso le redini di una delle istituzioni più importanti del mondo e che, così, si presenta al pubblico degli studiosi e degli appassionati in questa nuova veste che le consente – dopo essere già stata, dal 2015 al 2020, nel Comitato Scientifico della Galleria Borghese –, di valorizzare e indirizzare la fruizione del suo grande patrimonio.

Va infatti notato che, proprio per questo, si è deciso di non applicare – come legittimamente consentito – la maggiorazione del biglietto d’ingresso. È allora il paesaggio il cuore della mostra, come spiega per bene la curatrice nel suo saggio Guido Reni a Roma. Un quadro singolare e le ragioni della mostra, che introduce il catalogo (Marsilio) arricchito dai contributi di altri studiosi fra cui Daniele Benati, Anna Coliva (già direttrice del museo), Raffaella Morselli e Maria Cristina Terzaghi.

Così, al secondo piano della villa, sotto lo sguardo distratto degli dei dell’Olimpo riuniti a concilio, dipinti da Giovanni Lanfranco nella specchiatura centrale della volta, è possibile ammirare una ventina di capolavori che testimoniano lo sviluppo della pittura di paesaggio fra la fine del Cinquecento e i primi due decenni del XVII secolo; giusto in tempo per cogliere la contemporaneità col sof- fitto di Lanfranco, affrescato fra il 1624 e il 1625. Sarà qui palese il paradosso della pittura, ossia dipingere poche figure in grandi spazi e riuscire invece a rendere l’immensità del paesaggio in formati ridotti. Una sfida che, secondo Vincenzo Giustiniani, collezionista e mecenate, si può vincere in due soli modi «una senza diligenza di far cose minute, ma con botte e in confuso, con macchie», alla maniera di Tiziano e Raffaello, di Carracci e di “Guido” specifica; oppure facendo «…paesi con maggior diligenza, osservando una minuzia di qualsivoglia», secondo i modi di Herri met de Bles, noto come il Civetta, di Bruegel (“Brugolo”) e di Paul Brill (“Brillo”), ricorda ancora Giustiniani ( Discorso sopra la pittura).

Di tale intensa riflessione sul tema, il visitatore può avere ampia gamma di soluzioni pittoriche nelle opere esposte, a cominciare dal Paesaggio con scherzi di amorini e dal San Girolamo con due angeli pure di Guido Reni per continuare con opere di Paul Brill, Agostino Carracci, Domenichino, Carlo Saraceni e concludere rivolgendo sguardo alle quattro stagioni di Francesco Albani, che intrecciano il paesaggio ai miti di Venere e di Diana per la gioia del cardinal Scipione che li fece collocare nella “stanza del sonno” della villa. Il percorso espositivo, perciò, si sviluppa come una tesi universitaria (vale la pena di ricordare che Francesca Cappelletti è professore ordinario dell’Università di Ferrara) che apre nuovi squarci sull’arte di Guido Reni, non solo utilizzando capolavori invece che fotografie, ma offrendo al visitatore il privilegio di vivere, almeno in parte, la stessa atmosfera respirata dal pittore bolognese a Roma.

Per questo, la mostra alla Galleria Borghese non è paragonabile a nessun’altra fra quelle in programma nel panorama internazionale per celebrare il maestro seicentesco. Lo dimostrano le altre opere di Guido Reni esposte, quelle con le grandi figure monumentali a cui siamo abituati, come la celeberrima Atalanta e Ippomene del Museo di Capodimonte che, posta accanto al Ratto di Proserpina di Bernini, rivela un contrappunto compositivo fra il chiasma e la spirale che riassume buona parte del linguaggio barocco.

Allo stesso modo, la Strage degli Innocenti della Pinacoteca di Bologna, messa a confronto con l’Apollo e Dafne dello scultore napoletano, svela la consonanza espressiva fra la ninfa e la madre afferrata dallo sgherro per i capelli. Infine, in nessun altro luogo sarebbe possibile confrontare il Davide con la testa di Golia del Louvre e la statua di Bernini dedicata al futuro sovrano biblico. E la mosca da cui siamo partiti? Sta lì a ricordare che anche la bellezza del paesaggio, il piacere della danza e la spensieratezza di una giornata all’aria aperta, sono destinati a concludersi per la caducità delle cose; ma pure che la pittura è magia!