Agorà

Elzeviro. La musica sia incanto liturgico

Pierangelo Sequeri mercoledì 30 marzo 2016
In queste pagine nelle scorse settimane si è discusso di musica e liturgia (VEDI ARTICOLI A LATO), con un’attenzione particolare ai frutti e agli aspetti problematici di questi cinquant’anni di celebrazioni in lingua italiana. Da questo punto di vista a mio avviso l’equivoco fondamentale è stato quello di trattare la nuova ricerca di “canto popolare”, adatto alle celebrazioni parrocchiali normali, che è sempre esistito, come sostitutivo della “musica sacra”: sia del “gregoriano”, plasmato in osmosi con il testo latino da una lunga tradizione (innovativa, rispetto al canto rituale delle religioni, ed espressiva dello spirito cristiano della parola); sia del canto polifonico, omologato come integrazione “alta” del canto rituale, ma, nella realtà, ormai appartenente a una modernità dello spirito musicale occidentale, che si avviava a vivere e a svilupparsi secondo una vita propria. L’ingenuità della pretesa di sostituzione e la pigrizia della reazione di conservazione, hanno prodotto “teoremi” di cattiva qualità (storica, teologica, musicologica, artistica) che hanno ingombrato il campo e condotto a una paralisi di sterilità. Lo stallo ha però prodotto, alla fine, anche una duplice consapevolezza che può diventare un buon inizio. La prima è che la musica per la liturgia deve essere regolata sui parametri della liturgia: lasciandosi istruire dalla sua differenza rispetto alla espressività generale della stessa fede, e assimilando le qualità semantiche e simboliche dei suoi ritmi, dei suoi gesti, delle sue parole, dei suoi silenzi. La seconda consapevolezza è che la fase storica della nascita e della creazione della tradizione rituale è finita insieme con la cultura che fondava semplicemente sulla ripetizione delle origini la forza e la vitalità delle istituzioni (in tutti i campi). Questa storia rimane certo “normativa”, e in certo modo dovrà sempre essere “citata”. Ma la continuità dei suoi valori, come per tutte le altre istituzioni, andrà sempre cercata generando forme in continuità con la contemporaneità del sentire e del rappresentare. Nel nostro mondo, nessuna tradizione rimane vivente senza l’apporto creativo di forme che non si limitano a ripetere l’arcaico, bensì introducono al mistero che esso porta fino a noi. Sul canto e la musica nella liturgia riformata c’è stata una riflessione teologica specifica. Le ricadute però non sono state all’altezza del pensiero, perché la competenza e la pratica musicale si sono sottratte al compito, o ne sono state scoraggiate: sia da parte ecclesiastica che artistica. Il pensiero diffuso circa il legame fra cultura musicale, formazione civile e spirito religioso (non come semplice problema della “bellezza” o della “estetica”), è pieno di luoghi comuni e vuoto di contenuti. Purtroppo, i musicisti e gli ecclesiastici si lamentano moltissimo e fanno pochissimo. I giovani migliori, in entrambi i campi, di conseguenza stanno alla larga. Il nostro problema attuale è la disaffezione: i repertori si formano per via di affinità ideologiche più che di sapienza liturgica. Lo stallo dell’affezione e le opposte incompetenze che si fronteggiano potrebbero essere disinnescati dalla riabilitazione di una “corporazione” o “confraternita” dei musicisti di chiesa, che dopo il Concilio sono stati abbandonati a loro stessi oppure sono caduti in ostaggio di opposti caporalati ideologici. Un’istituzione diocesana, con opportuno e severo percorso formativo, in dialogo permanente col Vescovo e con le istituzioni della cultura musicale. Al Pontificio Istituto di musica sacra di Roma, c’è un preside che si ispira con generosa competenza a questa apertura mentale e artistica della cultura musicale per la liturgia, tagliando fuori polemiche e cliché. A chi, infine, mi chiede quali caratteristiche deve (o dovrebbe) avere, e cosa deve cercare una musica scritta per una liturgia “contemporanea” rispondo che questa è una domanda semplice. È una musica che non chiunque, e in qualunque modo, potrebbe improvvisare, cantare e suonare. Un servizio ecclesiale molto specifico, pieno di sacrificio di passione, di creazione e di responsabilità. Tutti potrebbero ascoltarla con commozione. Partecipare con brevi e opportuni interventi di conferma e di risonanza. Ma non potrebbero cantarla e suonarla. Sarebbe un incanto abilmente sottratto alla platealità tonale delle musiche che si cantano da sole. Scaverebbe nella fonetica e nella semantica letteraria della lingua materna (non sarebbe una musica nata col latino, adattata orribilmente a un mediocre italiano devozionale). Pochi si metterebbero di nuovo al servizio di molti: così affinata foneticamente, così aderente alla parola, così intensa nella sua capacità di far vibrare l’aula come incenso, che i cantori avrebbero un ruolo e un impegno speciale: come quello del prete, del diacono, del lettore, del predicatore. Fu così il gregoriano dei monaci, fu così la polifonia sacra dei cantori. Qua e là, poi, un bel Tota pulchra e un Noi vogliam Dio per tutti, nella forma del canto popolare adatto alla contemporaneità dell’espressione media, ci starà benissimo. E non farà perdere alla liturgia il suo incanto. Anzi.