I protagonisti. La missione olimpica delle guide degli atleti ciechi
I brasiliani Yeltsin Jacques e Guilherme Ademils dos Anjos Santos (guida) oro nei 1500m T11
Sono sportivi di alto livello che hanno deciso di mettersi a disposizione del prossimo. Hanno già gareggiato da soli in passato oppure hanno optato per una carriera completamente all’ombra degli atleti paralimpici. Senza di loro non ci sarebbero state medaglie e record, prestazioni da favola e immagini da consegnare alla storia. Le guide sono infatti l’essenza dello sport paralimpico nelle categorie riservate gli atleti ipovedenti e non vedenti. Tra i 141 italiani, a ricoprire questo ruolo sono in cinque, uno dell’atletica, due nel ciclismo e due nel triathlon. Proprio nella disciplina multipla lunedì a scortare Francesca Tarantello sul podio è stata Silvia Visaggi. Le guide infatti ricevono la medaglia come gli atleti da loro condotti, poiché sono essenziali nello svolgimento della gara. Sotto il Ponte Alexandre III con l’argento sul petto, la ventiduenne padovana Tarantello ha espresso dolci parole nei confronti della sua compagna: «Competiamo in due ma siamo un tutt’uno, Silvia e io. Lei è i miei occhi e mi sostiene al meglio durante i percorsi. Tra noi si sta creando un legame molto forte che va al di là della competizione, feeling e fiducia reciproca sono fondamentali per ottenere risultati importanti ». Ipovedente dalla nascita, Francesca Tarantello non potrebbe gareggiare senza il supporto altrui: «Mi serve per evitare di mettere in pericolo me e gli altri. Per questo dall’inizio alla fine della mia competizione sono con Silvia». Dal canto suo Visaggi ha raccolto la sfida, mettendosi in gioco in un ruolo particolare: «Quando mi è stato proposto non ho avuto dubbi, ho accettato con grande entusiasmo». Da lì è nata l’amal-gama perfetta, una a tranquillizzare, l’altra a motivare. Due corpi diversi, una mente in comune: «Essere guida è motivo di orgoglio e arricchimento personale. Non è un sacrificio, ma è un onore poter aiutare qualcuno a raggiungere il proprio sogno, che automaticamente si trasforma nel nostro sogno». Dall’io al noi è un passaggio naturale, seppur l’incontro tra Francesca e Silvia, ventinovenne torinese, sia stato casuale: «Abbiamo imparato a condividere molte cose e ho imparato molto da lei. Gareggiando insieme a Francesca sto riuscendo a realizzare ciò che da sola non ero riuscita a fare». La settimana scorsa a salire sul podio era stato Davide Plebani, ventottenne bergamasco, pilota del ciclista Lorenzo Bernard, bronzo nell’inseguimento individuale su pista. A loro è toccato portare a casa la prima medaglia italiana della rassegna. Con una brillante carriera da professionista delle due ruote e da pistard di primo livello, Plebani ha deciso di mettersi in gioco per vivere una seconda carriera diversa dalla prima: «Dopo aver abbandonato le corse, sono tornato al ciclismo sul tandem, per gareggiare insieme a Lorenzo. La brava guida, in questa specialità, è quella che pensa soprattutto a chi ha dietro. Se uno dei due componenti salta, infatti, il tandem non va più avanti». In passato pensava solo a sé stesso, adesso Davide ragiona al plurale, sebbene nei momenti di festa preferisca rimanere un passo indietro rispetto a Lorenzo: «È giusto che lui sia più celebrato di me, d’altronde è la sua storia paralimpica che deve essere veicolata. Penso di avere una buona sensibilità e di capire quello che lui sente». Il primo atto è stato completato, adesso rimane il secondo, su un manto diverso: l’asfalto stradale. Doppia fatica anche per Alessandro Galbiati, che dentro lo Stade de France è stato la guida di Arjola Dedaj, quarta nel salto in lungo e poi eliminata in batteria nei 100 metri. «Non avrei mai pensato di intraprendere un percorso del genere – racconta il ventiseienne brianzolo –, ma quando ho letto la lettera di Arjola che cercava un atleta guida, indirizzata all’Università che frequentavo, ho deciso di cogliere la sfida e sono partito, pieno di curiosità». Prima della gara Galbiati deve tranquillizzare l’atleta senza metterle pressione: «La parte più complicata è stata la gestione del salto in lungo, principalmente nel dare indicazioni, destra o sinistra, invertite rispetto al mio punto di osservazione». Una difficoltà superata con la pratica, mentre durante la finale dentro lo Stade de France la difficoltà è stata farsi sentire dall’atleta, visto che il pubblico non riusciva a mantenere il silenzio. Nel ciclismo il ruolo di guida spetta anche a Paolo Totò, pilota di Federico Andreoli: «La prima volta che sono salito in bici come guida ho provato un senso di responsabilità nei confronti del mio compagno e un grande entusiasmo di provare qualcosa di nuovo come il tandem». Nel triathlon, la seconda guida azzurra è stata Charlotte Bonin, in gara insieme ad Anna Barbaro, decime lunedì dopo che a Tokyo erano state seconde. Già campionessa italiana in tutte le categorie, la valdostana ha partecipato come atleta alle Olimpiadi di Pechino e Rio. Dopo il ritiro dalle gare internazionali, nel 2019 è diventata guida di Anna Barbaro: «Ho accettato questa sfida con grande entusiasmo e interesse, e molto presto ho apprezzato il feeling che si crea con la compagna di squadra. Tra le cose più belle del triathlon per me c’è il viso di Anna al traguardo, quando insieme raggiungiamo gli obiettivi che ci siamo prefissate». Stavolta la medaglia non è arrivata, ma l’impegno è stato comunque massimo: «La lezione che la vita mi ha insegnato, d’altronde, è di non mollare mai e crederci sino in fondo perché quando ci si crede e ci si impegna alla fine si raggiungono sempre gli obiettivi prefissati». Così col sorriso sulle labbra alla fine della triplice fatica Charlotte e Anna si sono abbracciate, si son fatte il segno della croce e hanno pensato alle rispettive figlie. Per entrambe infatti sono stati i primi Giochi da neo mamme. Non importa la copertina, si può essere soddisfatti anche lavorando a servizio degli altri. Sotto i tre agitos in alcuni contesti uno più uno fa tre, poiché la meraviglia paralimpica aggiunge un tocco alla mera somma degli addendi.