Dallo sport sporco, alla raccolta differenziata dei rifiuti. Si potrebbe sintetizzare così la parabola sportiva e umana di Giuliana Salce, un passato da stella della marcia degli anni ’80, poi finita letteralmente alle “stalle”. A un passo dall’abisso, per colpa del doping. Rifiutata da tutti e per anni senza uno straccio di lavoro per poter sopravvivere e crescere un figlio adolescente, Barnaba, «adesso ha 21 anni e fa il pugile». Finalmente una mano gli è arrivata dall’Ama Roma, l’Azienda municipale dell’ambiente della Capitale, dove lavora tre volte alla settimana. «Faccio il turno dalle 5.30 alle 11.30, guido un mezzo per la raccolta dei rifiuti organici, da via Veturia a piazza Santa Maria Ausiliatrice». Ha ricominciato dalla strada e dall’asfalto su cui ha vinto in tutte le distanze della marcia. Un titolo iridato indoor sui 3 chilometri a Parigi nel 1985 e argento a Indianapolis nell’87. L’anno dello “scandalo Salce”. Una sera di quel dicembre Giuliana nella sua casa di Ostia redige un documento contro la Fidal (Federazione italiana atletica leggera), sottoscritto e firmato da un gruppo di 7 atleti “dissidenti”. Si era firmata la sua condanna.
Ma che cosa c’era in quel documento di così deleterio per il suo futuro di atleta? Innanzitutto non era solo il mio documento. Con me firmarono alcuni di quei ragazzi che erano il meglio dell’atletica italiana di allora: Stefano Tilli, Gianni Di Napoli, Stefano Mei, Gianni Stecchi. Il contenuto era molto semplice: ci dissociavamo dalla Fidal per qualsiasi tipo di illecito sportivo che secondo noi si stava verificando, e soprattutto per la sempre più diffusa pratica dell’autoemotrasfusione e delle sostanze dopanti che sapevamo stavano circolando anche nell’atletica.
Circolavano o le consumavate anche voi? In quel periodo il mio doping erano gli allenamenti durissimi, al limite della sopportazione umana. I carichi li stabiliva il mio allenatore, che tra l’altro è il mio ex marito. Mi diceva sempre: “Giuliana, tu devi essere una macchina da guerra”. Nonostante una mia forma patologica di anoressia e bulimia insieme, all’epoca non prendevo nessun tipo di sostanza.
Torniamo al documento, che fine fece? Cestinato, anche perché gli altri si sono subito dissociati. Tilli e Mei davanti alla Federazione confermarono di averlo firmato, ma accettavano di continuare a gareggiare per la Nazionale. Invece la sottoscritta, la donna su cui la Fidal puntava di più, visti i risultati che portava a casa, era stata emarginata. Tre settimane dopo, andai a vedere una corsa campestre dove c’erano colleghi, dirigenti e giornalisti che sapevano benissimo chi fosse Giuliana Salce, l’avevano osannata fino al giorno prima; nessuno di loro mi salutò, ero diventata un’ombra...
La Federazione l’aveva fatta fuori, ma nessuno poteva dire niente, anche perché lei aveva ormai 32 anni, quindi a fine carriera. Provarono a dire che ero finita, ma in realtà le due ultime gare le feci proprio quel settembre dell’87. In 48 ore avevo stabilito un record del mondo sulle due miglia a Bussolengo e conquistato un record europeo sui 3.000. Il problema vero è che avevo parlato e osato sfidare il sistema, e questo poi ho capito che non si fa. Guai soprattutto a parlare di doping nell’atletica leggera.
Dopo aver chiuso con l’atletica, per lei nel ’99 si aprirono le porte del ciclismo. Avevo voglia di rientrare nello sport agonistico, anche se si trattava di ciclismo amatoriale. Dopo due giorni di prove ero già stata tesserata da una squadra, la Progetto Sud.Nel 2000 ho vinto un titolo italiano in montagna e a cronometro. Ero ancora pulita, poi l’anno dopo ho cominciato a prendere di tutto...
Si spieghi meglio, che intende con quel “prendere di tutto”? Sono partita dagli integratori per arrivare a farmi di Gh ed Epo. Tutta roba che mi forniva, gratis, un consigliere della Federciclismo, Maurizio Camerini (finito agli arresti domiciliari dopo l’inchiesta “Oil for Drug”). Un ciclo continuato di 4 mesi da maggio ad agosto 2001. Uno stillicidio.
Addirittura dei dirigenti le fornivano le sostanze? Quello stesso consigliere federale mi aveva perfino stilato la ricetta in codice. Con “allenamento lungo” voleva dire un giorno di Gh. Con “ripetuto” si sottintendeva somministrazione di Epo per il giorno dopo. Io mi rinchiudevo in bagno da sola e mi iniettavo le dosi come una perfetta drogata.
Più che una vita da atleta, sembra la trama di una donna sull’orlo della follia. Infatti ero caduta in una terribile depressione e un giorno, se il mio compagno Danilo non mi fosse stato accanto, forse oggi non potrei raccontarla questa storia, perché ero arrivata davvero ad un passo dal farla finita.
Depressione come effetto collaterale della dipendenza da doping? Quando ti fai di doping, di sicuro la tua testa non è più la stessa. Muscoli e prestazioni migliorano, come atleta ti guardi allo specchio e ti piaci fisicamente, ma poi non dormi più la notte, sei nervosa, vai in pazzia. E a un certo punto come donna e madre cominci a farti schifo.
Quando ha deciso che era arrivato il momento di dire “basta, adesso dico tutto”? Il giorno in cui è morto Marco Pantani. Pur non avendolo mai incontrato, mi sono sentita morire anche io. In quel suo sguardo pieno di malinconia ho visto riflessi i miei occhi. Come me era stato usato e sfruttato fino in fondo, per poi venire rifiutato, senza pietà. Era tempo di denunciare ai Nas.
A suo figlio ha spiegato come sono andate le cose? A Barnaba ho raccontato tutto sei anni fa. Lì per lì è rimasto interdetto. Poi, quando gli ho chiesto se era d’accordo che denunciassi pubblicamente la mia vicenda, lui mi ha incoraggiato dicendomi: va bene, mamma, se pensi che sia giusto devi farlo.
È stata una scelta che rifarebbe quella di esporsi in prima persona? Se guardo alle conseguenze, magari mi dico, ma chi me l’ha fatto fare? Ho subito minacce fisiche, mi hanno cancellata come sportiva, la Federazione mi ha chiuso tutte le porte. Fino a luglio dell’anno scorso ero disoccupata. Però penso anche non sia giusto come si comportano tanti professionisti dello sport, che sanno e accettano in silenzio, per anni.
L’omertà dunque alimenta il doping nello sport? Sicuro. Il no al doping è l’altra faccia della lotta alla tossicodipendenza. Bisogna informare ed educare, soprattutto i giovani. Solo così si può sperare di salvarne almeno qualcuno. Il problema è che ancora molti genitori non ci credono a quanto possa far male usare quelle sostanze, e ti ripetono frasi sentite da certi medici sportivi o allenatori scellerati che li hanno convinti con formule tipo: “Ma guardi che sua figlia è anemica e quella roba lì non può che guarirla”… Mentono spudoratamente.
Qual è oggi la sua verità e cosa si aspetta dal futuro? La mia esperienza l’ho messa tutta in un libro, Dalla vita in giù (Bradipolibri, ndr). Lì dentro ci sono tutte le violenze subite fin da bambina, gli errori commessi, ma anche i nomi e cognomi di chi in questi anni ha veramente assassinato lo sport. È una storia che vorrei tanto leggessero i giovani, quei ragazzini come la mia Cindy, la ragazza che alleno da un mese. Se sono tornata ad amare la vita e a credere in uno sport pulito, devo dire grazie anche a lei, alla mia piccola Cindy.