L'anniversario. La memoria di Porta Pia disegna la storia d'Italia
Porta Pia a Roma con il monumento al bersagliere
La memoria storica di un Paese, soprattutto nei momenti di svolta e di affermazione della sua identità si nutre di molti eventi. Ancor più ciò è vero per la data del 20 settembre 1870 quando Roma viene unita all’Italia, Regno unitario dal 1861. I protagonisti della Breccia di Porta Pia hanno caratteri particolari, perché il re e i governanti d’Italia sono in larga parte cattolici, ma anche laici e separatisti, molti massoni. Però hanno un interesse comune, quello di portare la capitale a Roma senza provocare fratture eccessive in una popolazione cattolica e devota al papa. Il quale, è noto, non rinuncia al potere temporale, che detiene da secoli (dal 754), perché lo considera necessario alla sua indipendenza come capo dei cattolici di tutto il mondo.
Anche perciò, la presa di Roma costituisce un evento bellico modesto, in virtù delle disposizioni che Pio IX dà al generale Kanzler il 19 settembre perché «la difesa di Roma (deve) consistere in una protesta atta a constatare la violenza, e nulla più: cioè di aprire trattative per la resa appena aperta la breccia».
Si compie un processo interno a un popolo che ha una lunga storia, e la stessa fede. E nel quale il vincitore non vuole umiliare il vinto, anzi, gli invia omaggi e promette amicizia. Il Governo italiano assicura ripetutamente gli altri Stati che al Papa non accadrà nulla, che a lui e alla Santa Sede si garantirà una condizione di libertà per la guida della Chiesa in Italia e nel mondo.
Nella lettera inviata al Papa il 18 settembre 1870 il re garantisce che «il Capo della Cattolicità (avrebbe conservato) sulle sponde del Tevere una Sede Gloriosa e Indipendente da ogni umana sovranità». Poi però non si fecero passi concreti per favorire un compromesso, si puntò ad annettere i territori pontifici.
Accade spesso, tuttavia, che gli eventi storici possono essere visti in modo ravvicinato sottolineandone le asperità, o da lontano, guardando più a fondo nelle dinamiche storiche. Da vicino, si può ricordare l’interesse della sinistra radicale per una svolta nelle relazioni ecclesiastiche, in una visione che Francesco Crispi, il più brillante e, per un certo periodo aspro, dei dirigenti separatisti, immaginò nel 1866 in una dimensione vagamente protestante. Per Crispi, il cristianesimo riprenderà prestigio, «diventerà la religione dell’Umanità. Ma finché in Roma papa e cardinali avranno un potere politico, cotesta riforma non sarà possibile».
Sempre da vicino, idee davvero bizzarre si agitano attorno alla Questione Romana. Napoleone III suggerisce a Cavour di offrire al Papa la Sardegna in cambio di ciò che rimarrebbe dello Stato pontificio, oppure di lasciargli Marche, Umbria e Abruzzi, per un governo vicariale. Agli inizi del secolo XX, si pensò in Germania che l’Austria potesse cedere al Papa la parte italiana del Trentino. Viene anche proposto a Pio IX di lasciare Roma e qualche Paese s’offre di ospitarlo, ma con più d’una riserva. La Spagna si augura che, per il bene comune, egli non abbandoni Roma. L’Inghilterra pensa lo stesso; l’Austria è pronta a una «réception cordiale», ma informa che la sua presenza «ne manquerait pas de nous créer des embarras che nous aimerions éviter» (non mancherà di creare imbarazzi che ameremmo evitare).
In realtà, dietro queste fantasie sta il vero conflitto che divide Santa Sede e Italia e che si presenta nella sua interezza agli occhi del mondo. Pio IX è fermo alla rivendicazione del principato temporale, non immagina quanto possa cambiare l’Italia e l’Europa rispetto ai secoli precedenti. Ma l’Italia sabauda non comprende che la funzione del papa non è quella di un vescovo, pure importantissimo, e la sua funzione non è solo religiosa, ma ricca di contenuti etici e umanitari che superano l’ambito spirituale. Dentro questa incomprensione storica, il Papa insiste sul potere temporale e l’Italia di Vittorio Emanuele sembra gelosa del papa; essa teme che il Vaticano possa far ombra al Quirinale, non riesce a vedere che il Quirinale riceverebbe solo luce da un Vaticano che affermi la sua centralità spirituale nel mondo.
Attorno al nucleo storico del conflitto si dipanano altre asprezze, gesti che rinnovano la memoria del 20 settembre. Il Vaticano non vuole che i sovrani cattolici che visitano l’Italia si rechino dal re per evitare un implicito riconoscimento del nuovo Regno. Nel 1887 il sindaco di Roma, duca Leopoldo Torlonia, rende visita al cardinale vicario per trasmettere al papa gli auguri per il suo giubileo, ma Crispi sottopone al re il decreto di destituzione del sindaco, dandogli grande pubblicità e compie uno sgarbo nervoso e inutile. Per parte sua, Pio IX si dichiara prigioniero in Vaticano, non vuole più uscirne per dimostrare a tutti di trovarsi «sub hostili domination», evita di dare la benedizione dalla loggia esterna di San Pietro. Il gesto colpisce la sensibilità dei cattolici, romani e no, che sono privati di un abbraccio che da sempre avvolgeva Roma e il mondo.
Se, però, la ragione storica e ideale sta dalla parte italiana per Roma Capitale, c’è un punto sul quale il Papa ha ragione. Il fatto che, essendo soggetto alla Legge delle Guarentigie del 1871, pur sempre revocabile, dovrà subire i cambiamenti italiani senza poter fruire della sovranità internazionale. Così, il 21 agosto 1871 in una lettera spedita in sunto al re, Pio IX lamenta la condizione della Cancelleria, dove sono le carte del governo ecclesiastico, ancora nella disponibilità della Chiesa: «Però, da un momento all’altro può saltare il ticchio a un Ministro di volere evacuato il locale di proprietà del Governo Pontificio». E se un ministro vuole, dice Pio IX, il Papa è soggetto alle sue decisioni.
Ed effettivamente al Governo italiano salta il ticchio di compiere gesti ben più gravi, proprio per il mancato riconoscimento della sovranità pontificia. L’Italia chiede ad altri Governi di negare alla Santa Sede il diritto di partecipare a pieno titolo a conferenze internazionali, come quelle dell’Aia del 1899 e del 1907 sulla limitazione degli armamenti. Nel primo conflitto mondiale c’è chi sostiene che la Legge delle Guarentigie vada in parte sospesa, perché gli ambasciatori presso il Papa degli Stati che erano in guerra con l’Italia non potevano restare a Roma. Così, in effetti, fecero, se ne andarono in Svizzera, ma di loro iniziativa, senza che la Legge subisse un vulnus formale.
Ma il problema era di fondo. Ove l’Italia e Roma fossero occupati da un esercito straniero (come avvenne poi nel 1943-1944) chi può garantire che gli occupanti rispettino la condizione fatta alla Santa Sede dalla Legge italiana? E di fronte a eventi clamorosi, chi può assicurare che non si adottino provvedimenti contrari alla sua indipendenza? Dunque, alla luce degli eventi successivi, una buona ragione il Papa ce l’ha. Tuttavia, la storia nasconde ancora un altro aspetto, il fatto che pur nel conflitto istituzionale, un forte cordone ombelicale univa la Chiesa alla popolazione italiana, e anche a livello normativo le relazioni ecclesiastiche erano ben diverse da quelli di altri Paesi separatisti come la Spagna e la Francia.
Nella legislazione italiana, all’opposto di quanto avviene in altri Stati, nessuna legge, o atto amministrativo, intacca mai la struttura della Chiesa, la sua autonomia e capacità d’autogoverno. Questa tiene integre le funzioni ecclesiastiche e religiose, e non subisce l’erosione popolare che gli eredi radicali dell’illuminismo promuovono un po’ dovunque. Il rapporto popolare tra società e cattolicesimo trova spazio nella scuola statale che si va estendendo sul territorio, e lo fa con una scelta tutta nazionale che introduce l’insegnamento religioso nella scuola primaria. La scelta si intravede nella Legge Casati del 1859, poi nella Legge Coppino del 15 luglio 1877 che prevede l’insegnamento come facoltativo nelle scuole primarie, e nel Regolamento del 1908 che prescrive che esso sia impartito ove la maggioranza del Consiglio comunale è favorevole. Scrive nel 1894 Francesco Scaduto, grande studioso insieme a Francesco Ruffini dei rapporti tra Stato e Chiesa, che seppure l’insegnamento «sia diventato facoltativo, da parte degli alunni, tuttavia il municipio lo dà in quasi tutte le città, anzi probabilmente senza eccezione alcuna». Anche in virtù di questo cordone ombelicale, si realizza un lento ma costante avvicinamento tra Italia e Santa Sede, punteggiato da importanti episodi.
Nel gennaio del 1881, i sovrani d’Italia nel primo viaggio in Sicilia sono accolti con solennità dai vescovi, anche nella cattedrale di Palermo; cardinali e vescovi rendono a volte visita a Umberto I e sono ricevuti ufficialmente da Vittorio Emanuele III. Il conflitto mondiale cambia un po’ tutto. Il Vaticano e l’Italia parlano (riservatamente) di accordi nel 1919, e mostrano quale livello di confidenza è maturato nei loro rapporti. Nel maggio del 1919 il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando si incontra a Parigi con monsignor Bonaventura Cerretti, e manifesta qualche propensione per un progetto che prevede la costituzione di uno Stato con sovranità sui Palazzi vaticani, e qualche aggiunta territoriale. L’incontro non avrà seguito, ma l’idea di una conciliazione entra nel novero delle cose possibili.
Cadono altre barriere, e la simbologia ecclesiastica riacquisisce centralità istituzionale. Con l’enciclica Pacem, Dei munus del 23 maggio 1920 Benedetto XV abolisce il rifiuto di ricevere i capi di Stato cattolici che si rechino in Italia a visitare il Re d’Italia. Alla morte del Papa il Governo italiano adotta un lutto ufficiale quale non s’era mai avuto, e Pio XI interrompe la pratica astensionistica del 1870 e dà la benedizione dal loggiato esterno di San Pietro, mentre reparti militari italiani presentano le armi all’atto dell’incoronazione.
L’Italia si riconcilia con la Chiesa, Benedetto XV è amato nel mondo come il “Papa della pace”, perché ha dichiarato la guerra una «inutile strage» e soccorre le vittime della guerra e del primo Novecento; si rimuove il “non expedit” ch’era divenuto simbolo di una separazione innaturale tra società e cattolicesimo.
In questa prospettiva, gli eventi che maturano, e seguono, il 1870, mostrano la fondatezza delle considerazioni di Paolo VI prima, poi di Benedetto XVI, sulla fine del potere temporale. Giovanni Battista Montini, parlando nel 1962 in Campidoglio ancora da cardinale, evoca le intransigenze che si scontrano nell’Ottocento, e osserva, con originalità che «la Provvidenza aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando sugli avvenimenti». Il Papa «usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma», ma proprio allora «il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimone del Vangelo, così da risalire a tanta altezza nel governo spirituale delle Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai». A sua volta, Benedetto XVI si sofferma sul conflitto tra Italia e Santa Sede e, scrive al Presidente della Repubblica per i 150 anni dell’Unità d’Italia che, se «il processo di unificazione politico-istituzionale» produsse quel conflitto che è passato alla storia col nome di “Questione Romana”, «nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile ed ecclesiale. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto».
Si comprende come il processo avviato nel 1870 trovi pienezza in altre tappe storiche, quella dei Patti Lateranensi, che porta al superamento della Legge delle Guarentigie, e alla Costituzione democratica. Questa realizza un sistema normativo fondato sulla libertà religiosa e sul più ampio pluralismo confessionale che ha contribuito a costruire un diritto europeo ispirato agli stessi princìpi. Storici e intellettuali di diversa formazione riconoscono che da allora è cambiata l’Italia, è mutato il rapporto della Chiesa con la storia e la sua evoluzione. Francesco Traniello e Francesco Margiotta Broglio hanno sottolineato di recente come già dal primo Novecento la presenza e l’attività dei cattolici nella società è vitale, s’inserisce nella sua dialettica democratica e da fine Ottocento i cattolici partecipano alle elezioni municipali. Per Giovanni Maria Vian, «la breccia di Porta Pia fu per il cattolicesimo un momento di purificazione», con essa si giunse a relativizzare «le forme di potere politico» si superò ogni assolutizzazione dei singoli segmenti storici. È possibile, così, una condivisione ideale anche dei momenti più complessi nella costruzione della storia di un Paese e della sua identità.