In cammino con Dante/16. La luce di Pia de' Tolomei, splendore di umanità
Dante Gabriel Rossetti, “La Pia de Tolomei”, 1868 circa, olio su tela
Lontana dai caratteri vivaci e inquieti di Sapia (Purg., XIII) e di Cunizza da Romano (Par., IX), donne di dispettoso ardore, Pia de’ Tolomei appare nel poema per disparirvi, come già fosse parvenza di Paradiso, trepida anticipazione di Piccardi Donati: «Così parlommi, e poi cominciò 'Ave, / Maria' cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave» (Par., III, 121123). Delle anime che esibiscono, nel canto V del Purgatorio, gli istanti finali della loro morte violenta, Pia non ha alcun tratto; non il lento contemplare la propria morte di Jacopo del Cassero: «Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco / m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io / de le mie vene farsi in terra laco» ( V, 82-84); e neppure il pari venir meno di Bonconte: «arriva’ io forato ne la gola, / fuggendo a piede e sanguinando il piano. // Quivi perdei la vista e la parola» ( V, 98-100). Essa sola sembra rappresentare l’economia del perdono che governa il canto: «Noi fummo tutti già per forza morti, / e peccatori infino a l’ultima ora; / quivi lume del ciel ne fece accorti, // sì che, pentendo e perdonando, fora / di vita uscimmo a Dio pacificati » ( V, 52-56). E meglio di tutti interpreta l’intento stesso del pellegrino che va cercando e offrendo pace: «Voi dite, e io farò per quella pace / che, […] / di mondo in mondo cercar mi si face» ( V, 61-63). Parla per ultima, con un accento di vigile pre- mura per gli affanni del 'viandante dell’eterno': «Deh, quando tu sarai tornato al mondo / e riposato de la lunga via» ( V,130-131), conferendo così al viaggio di Dante un umanissimo accento non di eccezionalità, di elezione, di rapimento mistico, ma di agognato riposo dopo un lungo cammino, pellegrino come tanti sulla via della Redenzione. Pia è forse quella che più fedelmente interpreta il senso del poema: un viaggio che appare lunghissimo, ma non è che un raccolto disegno della mente e della memoria, come ebbe a chiosare Francesco da Buti: «E riposato de la lunga via: bene è lunga la via: passare dall’una superfice de la terra a l’altra per lo centro. Montare lo monte altissimo, passare la spera del fuoco, montare al paradiso delitiarum e poi per tutti li cieli infine al cielo empireo, per certo questo è lo più longo e più alto viaggio che mai si facesse; ma allegoricamente si de’ intendere esser fatto questo viaggio co la mente». E nella mente essa stessa ricompone la propria vita, come fosse ante litteram un’epigrafe di Spoon River, di sé evocando solo il nome, il luogo di nascita e di morte: «Ricorditi di me, che son la Pia; / Siena mi fé, disfecemi Maremma» ( V, 133-134). Quel «disfecemi Maremma» è verbo di lenta agonia e di profonda malinconia, che Dante applicherà a sé, alla storia di Firenze, quando con lo stesso verbo farà delineare a Cac- ciaguida l’estinguersi di quella nobiltà fiorentina che fu orgoglio di un vivere onesto ed è ora nome vano: «Udir come le schiatte si disfanno / non ti parrà nova cosa né forte, / poscia che le cittadi termine hanno» (Par., XVI, 76-78). E non meno significativo del verbo è il sostantivo 'Maremma' che, da Dante a Carducci, è luogo di cruda insania: «Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. // Non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che ’n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi cólti» (Inf., XIII, 4-9). È una terra inospite, qui la Maremma pisana, che si prolunga in figure mostruose: «E io vidi un centauro pien di rabbia / venir chiamando: 'Ov’è, ov’è l’acerbo?' // Maremma non cred’io che tante n’abbia, / quante bisce elli avea su per la groppa / infin ove comincia nostra labbia» (Inf., XXV, 17-21). E invera, al più terribile grado, il «disfecemi», il corrompersi di corpi ormai irriconoscibili che sfigurati appaiono al fondo dell’Inferno: «Qual dolor fora, se de li spedali / di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre / e di Maremma e di Sardigna i mali / fossero in una fossa tutti ’nsembre, / tal era quivi, e tal puzzo n’usciva / qual suol venir de le marcite membre» (Inf., XXIX, 46-51). Così, poco importa sapere se Pia sia stata dei Tolomei, andata sposa a Nello Pannocchieschi, capitano di Taglia guelfa nel 1284, che l’avrebbe fatta uccidere per essere libero di sposare Margherita Aldobrandeschi; il solo ricordo che le rimane è quella geografia di morte, nella selvaggia Maremma, e quella «gemma» tradita che brilla, solitaria, ultima parola del canto di Dante e della donna innamorata: «Salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma» ( V, 135-136). Per questi due versi finali, Pia de’ Tolomei è stata eroina romantica, opera lirica di Donizetti e tragedia di Carlo Marenco, rappresentata in Europa e nelle Americhe, mito dolente di austera innocenza: «Pia: 'Ma agli occhi di Dio sarò innocente'; Ugo: 'Non temi il disonor?'; Pia: 'Temo la colpa'' (Carlo Marenco, atto I, sc. 5). E tuttavia essa vive per quel solo: «Siena mi fé, disfecemi Maremma», che Ezra Pound ripeterà in Hugh Selwyn Mauberley, (1920) e che ancora ispirerà T. S. Eliot, The Waste Land ( The Fire Sermon): «Highbury bore me. Richmond and Kew / undid me», «Highbury mi fe’. Disfecemi Richmond e Kew», col suo indimenticabile congedo: «Ardere ardere ardere ardere / O Signore Tu mi cogli / O Signore Tu cogli // bruciando».
I versi eponimi
«Ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma».
(Purgatorio V, 133-136)