Religioni. La lezione zen e "informale" di Eihei Dogen
Ritratto di Dōgen conservato presso il tempio Hōkyō-ji (宝慶寺) in Giappone, Prefettura di Fukui
Insieme ai due grandi maestri del taoismo cinese Laozi e Zhuangzi, il giapponese Eihei Dogen, maestro zen vissuto fra il 1200 e il 1253, è il patriarca supremo, la figura più originale, misteriosa e carismatica della sapienza dell’estremo Oriente. Il suo testo principale, lo Shobogenzo, cioè Il tesoro dell’occhio della vera legge (in Italia ne esiste solo un’edizione curata da Sergio Oriani che ha tradotto il testo dalla versione inglese di K sen Nishiyama), è una miniera, un labirinto, un abisso d’immagini, di metafore e idee taglienti come lame di guerrieri e insieme leggere e sfuggenti come piume, vele, foglie gettate qua e là da uno spirito caustico e paradossale, sempre in movimento tra i soffi e i bagliori, le curve e le onde del tempo e del non-tempo, del mondo umano e dell’eternità. Per mostrare ai suoi allievi cos’è la Via del Buddha, aiutandoli a liberarsi dalle trappole dell’ego e dagli attaccamenti mondani, Dogen non dà loro tregua: volta e rivolta il proprio linguaggio come una stoffa dalle innumerevoli pieghe; suscita dal fondo delle parole una serie continua di provocazioni, fiammate e cortocircuiti logici; soprattutto afferma con una forza maieutica impareggiabile che la sostanza sacra del mondo si manifesta ovunque se sappiamo riconoscerla: «la luce della luna copre la terra e tuttavia può essere contenuta in un secchio d’acqua e perfino in una stilla di rugiada».
Per quanto abbia scritto delle pregevolissime poesie waka, Dogen si è espresso liricamente soprattutto in molti passi dello Shobogenzo, libro a volte difficilissimo, scosceso e quasi folle ma ricco di una sapienza religiosa e umana, di una bellezza intima, di una vastità d’orizzonti in grado di nutrire profondamente qualsiasi lettore (non è un caso se anche molti cristiani dialogano da tempo con la tradizione zen). Adesso un eminente yamatologo, Aldo Tollini, ha tradotto direttamente dal giapponese un’altra opera cruciale di Dogen, lo Shobogenzo Zuimonki, raccolta dei suoi insegnamenti orali offerti agli allievi durante la loro pratica della meditazione seduta (lo zazen); la traduzione, col testo giapponese a fronte, è preceduta da una nitida, puntuale introduzione dello stesso Tollini e accompagnata, passo per passo, da un limpido, vibrante commento di una nota maestra zen, Anna Maria Shinnyo Marradi (Eihei Dogen, Shobogenzo Zuimonki. Discorsi informali, Bompiani, pagine 620, euro 23,00).
Se lo Shobogenzo è denso e accecante come una foresta di enigmi e di simboli percorsa dal fuoco erratico dello spirito o lucente come una superficie marina increspata da un vento rapinoso e leggero, lo Shobogenzo Zuimonki nato da discorsi informali raccolti e trascritti dal principale allievo di Dogen, Ejo ( Zuimonki significa, alla lettera, “trascrizione seguendo quello che ho ascoltato”), ha il respiro e il ritmo di un quieto ma sempre intenso, perfino ardente cammino quotidiano sul filo di una saggezza che non può mai essere racchiusa in concetti ma che occorre praticare liberandosi di tutti i pesi superflui, abbandonando il corpo e la mente ( shikantaza) al puro, gratuito gesto del sedersi insegnato dal Buddha. A tratti anche in questi discorsi, pazientemente imbastiti nell’ambito di una vita monastica e nel rispetto delle sue norme, riaffiora lo stile fantasioso, metaforico e obliquo del poeta, quello brusco del suscitatore di paradossi o quello, severo e corrusco, del maestro teso a ricordare ai suoi discepoli, un po’ come san Paolo, che non basta la “lettera” (la pratica dei precetti e delle regole) per alimentare un cammino di verità.
Lo spirito di cui questi insegnamenti vibrano, però, è soprattutto una sorta d’inno francescano alla semplicità, alla schiettezza e alla povertà: simile agli umili vestiti di carta usati da un monaco cinese ammirato da Dogen (“quando si alzava e sedeva, faceva il rumore della carta che si sta strappando”), lo Shobogenzo Zuimonki è perlopiù un tessuto di parole sciolte, “funzionali” e inappariscenti ma innervate dalla forza grande della sobrietà, dal rigore delle scelte radicali. Solo una povertà estrema, fondata sul distacco dall’io, permette ai seguaci dello zen una vera condivisione dei dolori e dei doni del mondo; solo in una mente sottile, duttile e lieve come un abito di carta può dimorare la compassione del Budda per tutti gli esseri, per tutto l’universo.